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I flagelli divini

Creato il 28 settembre 2010 da Fbruscoli
I flagelli diviniCi sono momenti in cui la maledizione del viaggiatore si abbatte come una punizione biblica, senza apparente motivo. Lasciando São Jose sembrava che tutto fosse a posto: il volo in orario, la pousada di Cuiabà che faceva il pickup dall´aeroporto gratis, la persona al telefono gentile e che parlava un po´ d´italiano, la possibilitá di fare un tour al Pantanal il giorno dopo. Ma le acque del Mar Rosso rimangono aperte solo un attimo, per poi richiudersi improvvisamente: la pousada é un posto con un certo fascino ma totalmente lurida (tralascio la descrizione del bagno per i deboli di stomaco), il padrone ha una risata finta e semi-isterica, il prezzo del tour é astronomico, la cittá é avvolta dal fumo delle campagne che bruciano e - dulcis in fundo - nessuna delle mie due carte di credito sembra avere buoni rapporti con i bancomat della cittá. Con quello che costa il tour, rimarrei senza soldi e devo ancora arrivare in Bolivia, dove spero che almeno una delle due carte verrá resuscitata. In una decisione lampo il Pantanal viene depennato e nel giro di cinque minuti mi ritrovo di nuovo zaino in spalla, nel caldo soffocante di Cuiabá, cittá che ha l´unico interesse di trovarsi nel centro geografico dell´America del Sud, il che non la rende né piú bella né piú piacevole. Alla rodoviaria prendo un bus per Caceres, nella speranza che arrivi in tempo per permettermi di effettuare le formalitá doganali prima di un viaggio allucinante che dovrebbe portarmi in Bolivia. L'aria condizionata è più di forma che di sostanza e si comincia a sudare. All'una il bus si ferma i un posto da Mezzogiorno di Fuoco, dove il fuoco è vero e l'aria è avvolta da una nebbia di fumo e cenere. Caceres appare come un miraggio nel deserto. Per compiere le formalità doganali prendo un moto-taxi con i miei due zaini (la gente guarda con curiosità). La stazione della polizia federale è letteralmente invasa da un gruppo di boliviani vestiti in abiti folklorici. Tento di saltare la coda spiegando che l'ultimo bus per la frontiera parte di lì a poco, ma il poliziotto è inflessibile. Quando si allontana un attimo, il suo collega mi fa cenno di passare e in due minuti il passaporto è pronto. Prima di riprendre il moto-taxi ho il tempo di fare una foto con il gruppo folklorico.
Tento di cambiare dei reais per dei bolivianos. Chiedo a delle persone, ognua delle quali ha una soluzione: la posta, la banca, la signora che ha un negozio d'abbigliamento, la casa di cambio inesistente. Finisco per cambiare i reais in dollari nella speranza che servano dall'altro lato della frontiera. Tornando alla stazione dei bus mi imbatto in una sfilata in cui vari gruppi latinoamericani si esibiscono in balli popolari. Ci sono anche i boliviani che ho incontrato alla stazione di polizia, seguiti da un gruppo di slovacchi (gli unici europei) vestiti con cuffiette e giacche di lana che ballano una danza centroeuropea sotto il sole tropicale.
Il bus per la frontiera è un cassone dell'immondizia con quattro ruote. In compenso la strada è vuota e il paesaggio scorre fuori dal finestrino come se si fosse su un treno: alberi, alberi, alberi, mucche, mucche, alberi, una casa, mucche di nuovo, alberi, un pilone della luce, alberi, mucche, mucche. Il sole inizia a scomparire tra le nuvole, l'aria si fa ocra, poi la notte cala, illuminata solo dai fari del bus che viaggia a tutta velocità.
Quando si ferma salgono a bordo due militari brasiliani dall'aria molto marziale, con tanto di giubbotto anti-proiettile (tanto per sudare un po' di più). Fanno scendere tre ragazzi boliviani e si soffermano - come prevedibile - sul mio passaporto che ha visti di mezza America Latina e mezzo mondo arabo. Mi fanno un paio di domande più per curiosità personale che per sospetto e passano oltre. Il bus riparte per fermarsi poco più avanti. Tutti scendono per salire su un taxi che copre gli ultimi chilometri guidando come un pazzo per una strada sterrata completamente buia.
Arrivo a San Mattias, Bolivia, in uno stato quasi onirico. Vengo sbarcato davanti al Las Vegas Hotel che deve essere l'unico in città, ha un'insegna con un uomo vestito da Cow Boy e sembra in tutto e per tutto un albergo a ore. L'uomo alla reception è semi-analfabeta e va in panico quando deve scrivere la nazionalità italiana invece che brasiliana. Il tempo di farmi una doccia e via a cercare di mangiare qualcosa per le strade semibuie del paese (a San Mattias non si investe molto in illuminazione pubblica e assolutamente nulla in asfalto).
Il viaggio da San Mattias a Santa Cruz, il giorno dopo, dura quattordici ore, di cui più della metà su strada sterrata. Entrando in uno stato di oblio totale, interrotto solo dalle tre fermate per mangiare ed andare in bagno, sopravvivo la prova senza troppo dolore. L'aria che entra dal finestrino dà un po' di refrigerio, la felpa dietro al collo aiuta a dormire un po'. Sono le undici di sera quando arrivo a Santa Cruz, stravolto da tre giorni ininterrotti di viaggio.
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