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I forget where we were, di Ben Howard – Recensione

Creato il 12 novembre 2014 da Visionnaire @escrivere

hqdefaultArtista: Ben Howard
Album:
I forget where we were
Anno:
2014
Durata:
56 minuti / 10 brani
Etichetta:
Island

Recensione:

Chi si aspettava che il secondo disco di Ben Howard fosse una perla di delicata bellezza come il primo, “Every Kingdom”, rimarrà probabilmente a bocca asciutta.
A due anni di distanza, questo giovane inglese dimostra di avere tutto il coraggio che contraddistingue i grandi artisti. Affronta la prova cruciale del secondo disco tagliando quasi tutti i ponti con la strada tracciata e la sicurezza (anche di vendite) del primo. Non è poco.
Abbandonato il sound decisamente acustico, questo lavoro risulta scuro e introspettivo. Già dal primo brano, “Small things”, aperto da una chitarra elettrica ubriaca, tutta echo e riverbero, si capisce che aria tira.
I brani durano in media cinque minuti, partono lenti, quasi acustici, e poi crescono arricchiti da altri intrecci di chitarre, basso, organo, batteria, archi e cori. Strutture complesse, ampi spazi alla musica dove si sente che gli artisti si sono sudati tutte quelle note.
Qui si annida il coraggio di cui parlavo prima: nel non piegarsi alle strutture dominanti ed elementari, ai ritornelli gustosi che arrivano entro il primo minuto. No, con questo lavoro ti devi prendere il tempo di ascoltare; ti devi fermare, appoggiare lo smartphone, diventare per un po’ “non-social”, aprire le orecchie e fare un bel viaggio. Assicurato!
Sembra quasi di sentire le prove di un disco, non una versione ufficiale dura e incartata, ingrigliata, perché si avverte proprio la scioltezza delle note e delle imprecisioni che fluiscono libere. Un disco che riabilita la nobile arte della “sala prove”, dove milioni di ragazzi nel mondo si perdono nella musica prima che questa diventi un pensiero troppo serio.
La title track “I forget where we were” per quello che mi riguarda è già un inno, una delle canzoni più intense e belle che abbia sentito negli ultimi anni. Con la voce delicata di Ben che a tratti mi ricorda Tracy Chapman. In questo brano si respira il mondo dei giorni nostri, dove le tragedie ti entrano in casa e non sai che fare: I was watching Syria blinded by the sunshine strip and you were in the kitchen.
Il resto del disco scorre leggiadro, con qualche punta veramente notevole. Il pezzo più breve, “In dreams”, è anche quello che, come strumentazione, ricorda il lavoro precedente.
Segue la ballata “She treats me well”, avvolgente e delicata, con un finale strumentale che ti scava dentro.
“Time is dancing” è un bell’esperimento movimentato, tutto basato su un giro di chitarra e tappeti sonori quasi indecifrabili. La melodia, come sempre, ti fa pensare di averla sempre avuta dentro, da qualche parte nell’anima.
“Evergreen”, il pezzo più lento del disco (e forse quello meno appetibile), precede “End of affair”, il momento più intenso di tutto il lavoro. Una piccola suite di quasi otto minuti che, come al solito, parte lenta, ma sul finale esplode letteralmente, mostrando in pieno le capacità musicali degli artisti che si sono riuniti in questo disco. Una vera gioia per le orecchie.
Chiudono il disco la stupenda “Conrad”, un arpeggio e una melodia che riempiono il cuore, e “All is now harmed”, brano che contiene tutti gli aspetti di questo viaggio. Batteria e percussioni sempre intelligenti, sempre in funzione del brano e mai sfoggio di bravura (come tutti gli altri strumenti); un mare di suoni vivi e caldi, voci e cori di una delicatezza fuori misura. Ben suona la chitarra in un modo sempre molto “fisico”; il suo personalissimo fingerpicking non può lasciare indifferenti.
È un disco duro e delicato allo stesso tempo. La copertina e il booklet interno riflettono un po’ le emozioni che pervadono il disco: il mezzo busto di Ben Howard in ombra, bianco e nero, leggermente sfocato. Anche all’interno ci sono un paio di foto, sempre lui e una montagna, sfocati. Niente ringraziamenti, solo testi e credits.
C’è una frase, nel primo pezzo “Small Things”, che rimane lì e aleggia per tutto l’ascolto: Has the world gone mad / or is it me?
Ecco, il sapore che regala questo disco, se si ha la pazienza di conoscerlo, è quel senso di sospensione stupita che accompagna la famosa scena del sacchetto di plastica nel film “American Beauty”. Quel sapore agrodolce che fa sospettare che forse, in mezzo a tanta mediocrità, si possono anche nascondere i miracoli.

 Voto:

5Stellina-nuova1

I forget where we were, di Ben Howard – Recensione

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