di Marco Righi
con Lavinia Longhi, Marco D’Agostin, Gian Marco Tavani, Maurizio Tabani, Claudia Botti
80 min, Italia, 2010
È un buon esordio quello di Marco Righi. Il suo “I giorni della vendemmia”,film che prima ha ottenuto riconoscimenti fuori dall’Italia e che ora viene presentato in giro per le piccole sale d’essai della penisola, si lascia guardare dall’inizio alla fine, pur mettendo a nudo numerose “ombre” comunque intervallate da impennate stilistiche e/o narrative degne di nota.
Si parte subito bene con una decina di minuti di riuscito affresco emiliano. L’opera è infatti ambientata nell’estate del 1984 in una casa della campagna reggiana (il regista è di San Polo d’Enza, provincia di Reggio Emilia) animato da una madre beghina, da un padre berlingueriano, una nonna silenziosa e arguta (il personaggio di contorno più riuscito) e un figlio sedicenne che ascolta dischi, fuma di nascosto e si masturba (rigorosamente in bagno, di spalle). Già dalle prime scene, caratterizzate da un’interessante dilatazione dei tempi narrativi, impariamo a conoscere i personaggi e soprattutto ad immedesimarci nel gracile adolescente Elia (Marco D’Agostin), la cui occupazione è quella di raccogliere l’uva dai filari di famiglia. (Attività quasi subito interrotta dall’arrivo della nonna che prima si fa dare un bacio e poi lo rimprovera dolcemente in dialetto reggiano: “Dam un bes” e, ancora, “Mo vienmi a trovare più spesso”. Chi non si è mai sentito dire queste parole?). Fin qui tutto bene. Anzi, considerando che il film è a budget irrisorio e girato in solo due settimane, il termine corretto da utilizzare sarebbe “sorprendente”: buoni i movimenti di macchina (soprattutto quelli che valorizzano agli ambienti in cui si muovono i personaggi), buona la recitazione, ottima la fotografia (Alessio Valori) e le musiche (Roberto Rabitti), buona la caratterizzazione e la valorizzazione dei personaggi. Fortunatamente questo è il trend dell’intera pellicola, che però comincia a mettere a nudo i primi problemi di natura narrativa a partire dal momento in cui entra in scena Emilia (Lavinia Longhi), spudorata universitaria figlia di amici che si vuole procurare un po’ di soldi offrendo il proprio aiuto al padre di Elia per la vendemmia.
Bella e spudorata, Emilia non solo sconvolge la quotidianità dell’imberbe Elia, facendogli scoprire la tensione sessuale (nulla di più), ma anche l’intero film. Da qui, infatti, la struttura della sceneggiatura comincia a scricchiolare pericolosamente, pur non cadendo mai. Cos’è dunque che disattende le premesse del bell’inizio? Un dubbio, che si fa strada a partire dall’entrata in scena di Emilia, personaggio straripante, quasi sempre sopra le righe e poco armonizzato con il contesto in cui comincia a muoversi. Tutto dipende dalle sue battute, quasi sempre eccessive e per questo delineanti un personaggio che è quasi un “corpo estraneo” rispetto alla narrazione. È a causa sua che, quasi per uno strano effetto domino, comincia a sorgere il dubbio che quello che stiamo guardando, in realtà, non sia ambientato nel 1984. Il problema ora riguarda ciò che stiamo osservando, non più come ci viene proposto. Per stessa ammissione del regista le letture che lo hanno influenzato sono state quelle di Pier Vittorio Tondelli (il film si apre con una citazione tondelliana, il protagonista legge “Altri Libertini” e il fratello maggiore è una sorta di alter ego del reale PVT), Enrico Palandri e Gianni Celati. Tutti autori che hanno sì operato negli anni Ottanta ma che, soprattutto nelle loro prime opere, hanno raccontato gli ultimi anni del decennio precedente. Ed è proprio dagli anni Settanta che sembrano uscire questi personaggi: pur avendo una carica sessuale più reazionaria che rivoluzionaria, Emilia che “viene dalla città” sembra essere distante anni luce dalla cultura delle discoteche e dei locali in cui impazzava il new romantic, la new wave o il punk dei CCCP mirabilmente descritto da Tondelli nel suo “Weekend postmoderno”; Samuele (Gian Marco Tavani), fratello maggiore di Elia, sembra appena uscito dal ’77, con i suoi capelli lunghi, le canne (negli anni ottanta impazzava la coca. Chiedere ad Ellis che nel 1984 scriveva Less Than Zero) e un’identita gay troppo poco tormentata; infine una serie di tributi a pellicole di fine anni Settanta, come Novecento di Bertolucci (1976, per il tema della masturbazione e il contesto), Taxi Driver di Scorsese (1976, per il monologo del protagonista all’interno dell’auto), ecc. Degli anni Ottanta resta solo un’azzeccatissima polo Lacoste indossata dal protagonista nel finale.
La sensazione è che Righi sia rimasto parzialmente vittima del suo slancio creativo. Quasi come se un’urgenza lo abbia spinto ad avere a tutti i costi una storia (certo, che funziona, e con qualche spunto simpatico e interessante) per poter dimostrare il prima possibile cosa avrebbe potuto fare con la macchina da presa. Peccato, perché con una sceneggiatura un po’ più attenta l’esordio sarebbe potuto essere notevole. Ora, la vera sfida è quella di parlare della campagna, la nostra magnifica campagna emiliana, magari quella che sta ai piedi delle colline dell’Appennino, con una storia maggiormente sobria e delicata, ambientata nella contemporaneità.
P.s. Come al solito finale stucchevole e scontato. Ma ormai è la prassi.
Voto: 6,5 su 10
(Film visionato il 26 giugno 2012)