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I Gonzaga e la Rocca di Vescovato. Una storia di famiglia scritta all’epoca dei feudi imperiali

Creato il 06 ottobre 2014 da Ilnazionale @ilNazionale

La_rocca_di_Vescovato6 OTTOBRE – Si è tenuta lo scorso 3 ottobre, nella splendida cornice del centro storico di Mantova, la presentazione del libro di Giada Scandola e Giulio Girondi I Gonzaga e la Rocca di Vescovato. Il volume, edito da “Il Rio Arte” è il frutto di un’intensa attività di ricerca durata oltre due anni e svoltasi tra il borgo di Vescovato –Cremona- e l’Archivio di Stato di Milano e Mantova. La dott.ssa Scandola, laureatasi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Verona, ha curato gli aspetti storico-legali delle vicende gonzaghesi, mentre Giulio Girondi, dottore di ricerca in Architettura al Politecnico di Milano, ha approfondito la parte artistica e, appunto, architettonica. Preziosa anche la collaborazione con la dott.ssa Roberta Piccinelli, storica dell’arte, che ha inquadrato gli aspetti di maggiore interesse culturale per i lettori.
Oggi è noto a tutti come il nome dei Gonzaga sia legato indissolubilmente alla città di Mantova. È un nome che si studia fin dai banchi di scuola e che riporta alla memoria un antico passato fatto di rigide gerarchie sociali, lotte di potere ma anche mecenatismo, sviluppo delle arti e delle scienze. Se a tutti, o quasi, sono note le vicende salienti del ramo principale della famiglia, non si può tuttavia dire lo stesso per il ramo cadetto. Ad eccezione di qualche appassionato, i più non conoscono l’interessante storia che contraddistinse i Gonzaga di Vescovato, unico ramo dell’antica famiglia ancor oggi esistente.

da sinistra a destra: Roberta Piccinelli, Giada Scandola e Giulio Girondi

da sinistra a destra: Roberta Piccinelli, Giada Scandola e Giulio Girondi

In apertura, la dott.ssa Roberta Piccinelli ha sottolineato l’importanza dell’opera, che costituisce un contributo innovativo per gli studi storiografici. «In origine non c’erano documenti e testimonianze sufficienti per descrivere questo periodo storico. Proprio per questo l’opera costituisce un fondamentale contributo per permettere l’avanzamento della ricerca». Insomma, per chi voglia riscoprire il passato e ricostruire una storia come quella dei Gonzaga, è fondamentale perdersi un po’ tra codicilli, attribuzioni di dote, legati ed eredità. Soprattutto abbandonando gli schemi mentali di oggi.
Nel Cinquecento, infatti, le successioni privilegiavano quasi esclusivamente i parenti maschi del de cuius. Non era pensabile una successione a favore delle donne, ad eccezione che nel caso –infausto- della completa estinzione del ramo maschile di una famiglia. Fu così che, per secoli, i possedimenti vennero trasmessi ai parenti maschi, nel tentativo di accrescere le proprietà e di consolidare la ricchezza.

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«La nostra storia comincia con Giovanni Gonzaga, cognato di Isabella d’Este» ha esordito Giada Scandola. «Giovanni spicca per diversi interessi, in quanto fu letterato, consulente in materie artistiche, ma soprattutto capitano di ventura per eserciti stranieri e capo delle milizie stanziate a Verona al punto che gli venne attribuito il controllo del castello di Lazise. Acquistò il feudo di Vescovato da Guido Novello per 2300 scudi d’oro il 22 marzo 1519. Non si trattava di una semplice tenuta agricola ma di un bene da tutelare e proteggere. Ciò che più stupisce è che il feudo era enclave gonzaghese in territorio cremonese, e che la sua importanza crebbe al punto che da esso deriva il nome dell’intero ramo della famiglia».

La Rocca di Vescovato in una foto d'epoca

La Rocca di Vescovato in una foto d’epoca

Nel 1546 Sigismondo II, nipote sedicenne di Giovanni, aliena nuovamente il fondo alla nobile Emilia Gambara per oltre 14mila scudi d’oro. «Sebbene all’inizio tutto sia apparso regolare –continua la relatrice- in seguito Sigismondo impugnò l’atto per farne dichiarare la nullità, dato che era minore d’età al tempo dell’alienazione. Fu una causa molto complessa, ma nel 1595 i Gonzaga rientrarono nella proprietà dei loro possedimenti. Sigismondo voleva che i suoi cinque figli maschi tenessero unito il patrimonio, quindi egli stabilì nel suo testamento che la divisione dei beni ereditari non potesse farsi fino al compimento del trentesimo anno da parte del maggiore, Carlo». Con la morte prematura del fratello Francesco, di fatto i beni furono spartiti tra gli altri quattro eredi. Non fu però una suddivisione indolore, dai contrasti ereditari i fratelli uscirono molto divisi e solo il palazzo familiare rimase unito. L’unico a poter vantare una posizione forte fu Guido Gonzaga, che ottenne la maggioranza del feudo.

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«L’atto di acquisto dello stesso cita la presenza di castrum, arx, iura ac singula sita –prosegue la dott.ssa Scandola –. Rileva soprattutto la presenza di un castello e di una rocca. Una mappa che abbiamo trovato all’Archivio di Stato di Milano ci segnala la presenza di entrambi gli edifici ma, allo stato attuale, è difficile riconoscerli. Non è rimasta nessuna traccia del castello e della piazza, mentre la rocca si è conservata solo parzialmente». Questa è forse conseguenza delle vicende che interessarono gli eredi di Guido Sforza tra Cinquecento e Seicento, oltre che dell’incuria attuale. Il nipote di Guido Sforza, Pirro Maria II, scrisse un manuale di Istruzioni dell’interessi della casa, nel quale descrisse la ristrutturazione operata sul proprio patrimonio. Dalla vendita del feudo di Fontaneto in Piemonte, ottenne circa 42mila scudi che il figlio, Ottavio II, avrebbe dovuto almeno in parte reinvestire per migliorare i possedimenti di Vescovato. «Non si trattava di un progetto di ristrutturazione isolato -precisa l’architetto Girondi-, in quanto si poneva nell’ambito di un più ampio piano di rinnovazione degli spazi esistenti. Anche Gaetano Mettacodi intervenne indicando, nel 1690, le modifiche da fare».

Giada Scandola e Roberta Piccinelli con il sindaco di Mantova, Nicola Sodano

Giada Scandola e Roberta Piccinelli con il sindaco di Mantova, Nicola Sodano

Ottavio II, nato nel 1667, fu un uomo di lettere e un appassionato studioso di filosofia, più che un abile amministratore. Sposato a Maria Rosa Trotti, visse a Milano e morì all’improvviso, senza operare i dovuti interventi sui possedimenti di Vescovado. In mancanza di altri discendenti maschi, l’eredità si dovette devolvere a favore di Eleonora e Marianna Gonzaga, figlie di Pirro Maria III.
Come hanno evidenziato i relatori durante il convegno, l’ultimo intervento significativo a Vescovato risale proprio a Pirro Maria II, che fin dal 1667 investì nel feudo 17mila scudi, cioè una parte del ricavato della vendita di Fontaneto. La prima opera realizzata da Pirro, tuttora osservabile nel suo insieme è la piazza porticata, composta da 11 case con bottega. Come sottolinea Girondi nel volume: «Si tratta di un’edificazione a schiera basata sulla ripetizione di un modulo. Operazioni di questo tipo non sono nuove nel panorama italiano del tardo Seicento. Per quanto riguarda le terre sotto l’influenza gonzaghesca, forse il caso più noto riguarda la canonica di Santa Barbara (…) Sembra chiaro che i tre interventi promossi da Pirro Maria II e cioè la realizzazione della nuova chiesa, la costruzione di case con i portici e la ristrutturazione della rocca, non devono considerarsi interventi isolati ma frutto di un progetto unitario di ridefinizione del centro del paese, cuore e manifestazione del potere feudale». Indubbiamente, gran parte delle risorse furono utilizzate per la rocca, che oggi purtroppo è quasi irriconoscibile a causa delle vicende che l’hanno investita tra Ottocento e Novecento.

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Gli autori del libro non si sono limitati a ripercorrere una storia d’altri tempi, la saga di una grande famiglia del passato, ma hanno permesso a questa stessa storia di riaffiorare, di venire a conoscenza di tutti. Il loro lavoro testimonia quanto ricca di arte sia questa nostra Italia, dove il passato ed il presente si sovrappongono e si contemperano, e dove troppo spesso si rischia di conoscere le vicende che hanno interessato solo le grandi città, non anche i piccoli borghi. C’è da augurarsi che un nuovo spirito di riscoperta e meraviglia travolga le persone comuni, gli amministratori e chiunque abbia a cuore il futuro dei nostri piccoli, ma splendidi, paesi.

Silvia Dal Maso

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