Ci sono film italiani che vanno visti, perché lasciamo profondi segni nell’anima. Perché ti portano a un grado di consapevolezza che non avresti mai immaginato. Perché scavano nei sogni più reconditi e nei desideri più inespressi e li portano a galla. Ci sono film italiani che ci fanno ancora credere nel cinema di questo Paese dimenticato dagli déi antichi e nuovi. Uno di questi film è Alaska.
Qualcuno l’ha definito un
melò, ma credo che sia riduttivo definirlo melò. La descrizione dei personaggi, soprattutto di Fabio e Nadine, interpretati magistralmente da Elio Germano e Astrid Bergès-Frisbey, sono quanto di più lontano dalla descrizione manichea dei personaggi del melodramma classico voi possiate immaginare. Fabio e Nadine sono due solitudini che collidono ed esplodono. Sono due chiaroscuri pronti ad avvolgerti con le loro idiosincrasie, le loro paure, le loro contraddizioni. Fabio e Nadine non sono due personaggi, sono due persone, com’è capitato a tutti noi di conoscere.

E nei meandri della loro solitudine Cupellini viaggia e scandaglia l’animo umano. Attraverso una meravigliosa fotografia che procede per contrapposizioni visive e compositive, Cupellini parla della vita e di quanto sia bastarda. Di quanto spesso tempo e luogo non si accordino con le persone. Di quanto la persona giusta arrivi nel posto sbagliato e al momento sbagliato. E allora le anime si rincorrono nel tempo e nello spazio. Si avvicinano e si allontanano in un inevitabile cercarsi e rincorrersi.

In un inevitabile rincorrere il momento adatto. L’attimo. Che poi quell’attimo bisogna “crearselo” e non aspettarlo pigramente è un altro paio di maniche. Ed è esattamente nel momento in cui smettono di rincorrersi a vicenda, ma si (ri)trovano; nel momento in cui smettono di inseguire vacui sogni e illogiche chimere che Fausto e Nadine si mostrano per quello che realmente sono l’una per l’altro ovvero l’amore. L’amore imperfetto e doloroso. La consapevolezza dell’amore. La consapevolezza della vita.