Anna Lombroso per il Simplicissimus
A momenti avremo l’annuncio trionfale del ministro Frattini: giustizia è fatta, da ora potremo rimettere nel beauty case le forbicine da unghie.
Non ci aspettiamo molto di più da un governo che ha scelto di fare la tricoteuse stando a guardare cosa fanno gli altri nel bene e nel male, accollandosi un ruolo subalterno di parcheggiatore: si dotto’ l’ha proprio pittato ‘sto tornado.. sostituendo la politica estera con la partecipazione a operazioni esplicitamente belliche ancorché eufemisticamente denominate missioni umanitarie, export di democrazia, trasferimento di libertà, tutti bellissimi e desiderabili prodotti che faremmo bene infatti a cominciare ad importare qui da noi.
Stavolta fa irruzione in questa marmellata semantica spalmata sulla guerra, anche la giustizia. Che nel contesto internazionale dovrebbe più opportunamente e ragionevolmente essere sostituita dall’equità. Che un paese dal passato non proprio limpido voglia trasformarsi da guardiano (spesso mandante, di frequente killer) in giudice (più verosimilmente giustiziere) è opinabile. Ma lo sarebbe anche per il migliore dei paesi possibili, nel mondo felice, candido e armonioso di Pangloss.
E’ che in un mondo che le dinamiche della globalizzazione – cui si attribuiscono tutti i meriti e le colpe – rendono sempre più eterogeneo e ibrido e complesso, sembra proprio che abbiamo perso la grande sfida. Quella della capacità di comporre le differenze economiche e sociali, garantendo la libertà, tutelando le identità, neutralizzando il conflitto. Realizzando dunque l’integrazione delle democrazie nazionali e costituzionali in una democrazia multiculturale e cosmopolita.
Sfida difficile certo, quella di un’equa omogeneizzazione del sistema internazionale in chiave “democratica”, quella federazione di popoli immaginata da Kant, addirittura impossibile se guardiamo alla sussiegosa e inadeguata Europa, così come alla tracotante egemonia statunitense.
Giustizia non si coniuga con guerra e nemmeno con globalizzazione.
L’idea che un fenomeno così complesso e stratificato favorisca sia pur nel lungo periodo una costituzionalizzazione del diritto internazionale, che introduca un nomos globale prodotto democraticamente in sostituzione della lex mercatoria, è più che utopistica, ridicola.
Almeno quanto farsi convincere che le politiche coercitive travestite da missioni umanitarie, producano consolidamenti istituzionali e il ripristino automatico di condizioni di legittimità e democrazia: le politiche di intervento, anche se non assumono i perentori connotati della strumentalizzazione imperiale, hanno sempre comunque l’effetto di ledere e violare il diritto e l’esercizio di autodeterminazione, mediante interferenze e ingerenze.
È che l’impegno più o meno convinto, più o meno “onesto”, a promuovere la democrazia in altri paesi, la cosmopolitizzazione della democrazia appunto, deve integrarsi con il rafforzamento istituzionale interno e con la volontà di mobilitare forze e risorse per rendere democratica e rispettosa dei diritti la società multiculturale in casa propria.
Tutte istanze impraticabili per non dire impensabili nel nostro Paese, debole e rinunciatario, nel quale la globalizzazione spiega e giustifica diffidenza e chiusura nell’illusoria fortezza della comunità identitaria, nell’elevazione di soglie di esclusione sociale, nell’esercizio di una aggressività violenta e repressiva nei confronti dei diversi e marginali, compiuta in nome delle tradizioni culturali, e nella regressione al tribalismo, proprio quando sarebbero richiesti i più elevati standard di culture e politiche dell’inclusione.
La giustizia vorrebbe potenti gli inermi e inermi i potenti. Forti i giusti e giusti i forti.
Ma il nostro sembra ormai un Paese forte coi deboli e debole coi forti. Talmente debole da non sapere più nemmeno immaginarsi un’utopia di giustizia sconosciuta e da preferirle un incubo noto di iniquità.