Magazine Diario personale

I hate it here, get me out of here

Da Margherita

Vago senza meta per Vicenza; pedalo veloce e mi guardo attorno. Il rumore della mia terra è schiacciato da quello di un disco che parla di periferie.
Ci vuole uno sforzo disumano per intravedere bellezza in ciò che mi si para davanti. L'afa soffocante, l'asfalto crepato, i vialoni semi-deserti delle nove di sera. Non ci sono abbastanza film che offrano uno sguardo romantico su paesaggi come questo. Non vi è nulla di affascinante e desiderabile in ciò che esiste qui, al livello del suolo. Per anni ho finto che sarebbe venuto il giorno in cui questo asfalto sarebbe diventato l'asfalto di una di quelle plumbee città americane dalle quali è proviene la musica che amo, ma non è mai accaduto.
Sono successe altre cose. Alcune le ho osservate da fuori, ad altre ho partecipato. Poi ci sono state quelle che si sono consumate in un attimo, senza che quasi me ne rendessi conto. Nel frattempo, imparavo a memoria il posizionamento delle crepe nell'asfalto, mi lanciavo in discesa con bici senza freni, punteggiavo la città di ricordi.

Quando cominciai a frequentare Luca, mi fu rivelata l'esistenza dei cieli stellati. Prima di allora non avevo mai camminato in un campo dopo il calare della notte. Conoscevo solo l'inquinamento luminoso; il resto erano eccezioni tipiche delle gite in montagna o delle vacanze con i miei genitori.
Camminavamo attraverso il campo di suo nonno; a volte portavamo a spasso il cane. Quasi mi girava la testa, se guardavo troppo a lungo la coperta nera ricamata con perle luminescenti che ci sovrastava, come la volta in cui fissai per due ore i soffitti mosaicati della cattedrale di S. Marco a Venezia.

Mi bastano pochi giorni a Vicenza per tornare a provare il desiderio che tutto venga raso al suolo. Non sono ancora a quel punto, ma ne odoro l'imminenza nell'aria pesante che schiaccia il mio quartiere. Lo intuisco nelle risposte meccaniche che do alle missive di chi è sempre troppo stanco o disinteressato per stare ad ascoltarmi quando parlo, ma che finge comunque di nutrire genuino interesse nella mia attività mentale, pur di fare del mio corpo un approdo illusorio e fugace.
Non sono il genere di persona che si annoia con facilità, ma tutto ciò è così schifosamente noioso. Non ho altre parole per descrivere lo stato di contenuta disperazione e rabbia nelle quali questa noia mi getta.
Vorrei essere una di quelle persone audaci che non possono fare a meno di viaggiare e spostarsi. Vorrei essere qualcosa di diverso da questo sacco di ansie, o per lo meno avere qualcuno con cui andarmene, perché da sola non ce la faccio. Sono rimasta bruciata dal modo in cui mi sono ridotta stando da sola a New York. La cosa peggiore era il silenzio in cui sprofondavo ogni volta che mi rendevo conto di non poter tradurre le cose più argute che volevo dire per i nativi, perché ero un piccolo personaggio eccentrico proveniente da un luogo esotico, perché non sono il tipo da dare grandi spiegazioni, perché il mio senso dell'umorismo è elettricità statica anche alle orecchie di molte persone che parlano fluentemente la mia lingua e il mio dialetto.

Vorrei non essere uno di quei sacchi d'ansie che parlano a fatica anche con le persone conosciute. Vorrei non dover essere ubriaca per riuscire a comportarmi con quella che mi pare sia la fluidità che mi compete quando sogno. Spesso sono felice di non potermi vedere da fuori quando sono ubriaca. Altre volte - rarissime volte - sento la mia voce combaciare con la mia parola scritta, sento fili rossi tesi tra il mio corpo e quello di chi mi sta ad ascoltare e mi risponde. Luca - un altro Luca - mi ha detto che riesce a sentire perché parlo nel modo in cui parlo. Il mio modo storto di parlare. Ha detto che si sente che cerco le parole, che ho sempre troppe parole tra cui scegliere.

Mi domando se la provincia restringa o espanda il mio vocabolario, se sia un appiglio o l'àncora che mi costringe sott'acqua. Non credo che svilupperò mai delle branchie per respirare qui.
Non credo che riuscirò più a vedere bellezza in queste zone industriali, in questi quartieri orripilanti, non da sola, non senza che la mia percezione del reale sia stata artificialmente falsata.
Non c'è alcuna poesia in questa solitudine. Non riesco a ricordare l'ultima volta che mi sono sentita profondamente compresa in questa città senza provare al contempo una vaga amarezza dovuta al fatto che le persone che mi stavano guardando e che mi stavano vedendo per quello che sono se ne stavano per andare.

In provincia c'è la mitologia della fuga. La mia mitologia è quella della fuga. Ma la mitologia della fuga è stata fatta a pezzi nel corso degli ultimi anni, è stata fatta a pezzi dalla crisi economica e culturale che affligge grossi segmenti del nostro Paese. Sentir parlare di fuga ormai mi fa quasi schifo, perché a quel discorso sono state associate formule standard che non vogliono siano lette come mie. Non voglio che gli altri pensino che le mie ragioni siano diverse dalle mie reali ragioni, che sono quelle che mi trafiggono il corpo, che sono quelle mi costringono a guardare con palese disprezzo diciottenni sconosciuti vestiti troppo bene, se li scorgo sulla soglia della mia vecchia scuola superiore, se il mio sguardo cade su di loro mentre sto sfrecciando in bici davanti ai bianchi fuoristrada dei loro genitori.

Non c'è modo di porre rimedio a questa noia iraconda.
Ora che sono a casa da sola, passo ore a suonare le solite canzoni, e altre canzoni che parlano di periferia, perché non ho altro accesso immediato alla bellezza che so essere sottesa anche a luoghi come questo. Il fatto che qui tutti cantino d'altro mi fa venire voglia di salire sul primo albero e non scendere più.

Tempo fa scrissi un articolo su Led Zeppelin III all'interno del quale citai una riflessione che avevo letto in un volumetto dedicato a Bee Thousand dei Guided By Voices. In uno dei primi capitoli, l'autore contrapponeva dischi come il capolavoro dei GBV ad album più convenzionalmente "da viaggio", ovvero quelli che con chiarezza raccontano storie volutamente lontane e aliene dalle esperienze dirette dell'ascoltatore. Bee Thousand, invece, rimanda a storie vicine, a frammenti di quotidianità "normale", perché è costruito su quel tipo di materia prima. Ciononostante, suona come un album arduo da penetrare.
Mesi dopo l'uscita del mio articolo, ricevetti una mail dall'autore del libro che avevo citato. Mi disse di aver trovato il mio pezzo e di averlo letto alla meno peggio usando Google Translate. Nel chiudere la sua missiva, si disse lieto di essersi imbattuto in un'altra persona amante dei Guided By Voices.

Forse la risposta va cercata lì. Forse il problema è che al mondo ci sono troppe poche persone pazze dei Guided By Voices. Forse se ci fossero più persone che affrontano l'oscenità della provincia o, più in generale, l'oscenità della vita, sfrecciando per strada con Propeller sparato a volumi molesti nelle orecchie, io non sarei questo personaggio patetico che si lamenta perché a Vicenza tutti sembrano fare musica che non ha nulla a che fare
con il suolo di Vicenza
e l'asfalto di Vicenza
e l'afa estiva di Vicenza
e gli alligatori rossi e le madonne delle rotatorie di Vicenza
e il modo in cui il centro storico si svuota dopo una certa ora
e le discoteche orribili
e noi che in ogni caso non abbiamo mai voluto metterci piede
e abbiamo sempre trovato altri modi per convincerci di poter sopravvivere qui per un altro mese
e i luoghi in cui siamo stati felici
e i luoghi in cui ci siamo sentiti completi.
Non me ne frega più un cazzo di sentire inni antagonisti e chitarristi supertecnici e musica che potrebbe essere stata scritta e registrata dovunque, se a propinarmela è gente cresciuta qui insieme a me. Vuol dire che abbiamo modi diversi e probabilmente inconciliabili di intendere e vivere questi luoghi, e in tutto ciò io sono quella che è rimasta così segnata dalle crepe nell'asfalto e dai meccanismi di esclusione nei quali mi sono trovata incastrata da non avere più alcun desiderio di fingere che ciò non sia accaduto, per poi sorridere con aria conciliante a persone che non hanno mai smesso di considerarmi un irrecuperabile caso umano.
So che dopo una certa età è previsto che si dimentichi, che si guardi con relativa serenità al passato, ma io non ci riesco, e ogni volta che rimetto piede a Vicenza mi bastano tre giorni senza abusi alcolici per tornare in quarta superiore, anche se ora ho la patente e sulla carta potrei andare ovunque, potrei andare dalle persone che mi scrivono cose che mi fanno sentire viva, potrei andare a visitare luoghi in cui non sia necessario uno sforzo disumano per vedere bellezza, per vedere purezza senza nascondere parte dell'orizzonte con il palmo di una mano.

 


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