C’era una volta una ragazza di 18 anni che, mentre tentava di far approvare “Hakuna Matata” come nome del giornale scolastico, sognava di vincere un Pulitzer. Poi quella ragazzina è cresciuta e, come nelle migliori favole, il Pulitzer si è trasformato in un Oscar, soprattutto perché è più funzionale come fermaporta per i gatti (Cher insegna!).
Quella ragazza ero io e le notizie di cronaca di questi giorni, la morte di Andrea Rocchelli che aveva la mia età, le elezioni, mescolate alla visione (“finalmente” direbbe qualcuno!) di House of Cards hanno riportato alla mente quel sogno forse mai sopito del tutto. Sono sempre stata una donna dai sogni complicati, perché come afferma Claire Underwood “Le cose facili a noi non piacciono, vero?”
No, le cose facili non ci piacciono e lo spirito della Pasionaria (soprannome affibbiatomi con tono dispregiativo dal mio prof di italiano del liceo) non mi ha mai abbandonata, nonostante non abbia mai fatto politica attiva, nonostante non abbia mai avuto la tessera di un partito, nonostante non mi sia mai candidata (cosa che dalle mie parti va molto di moda ultimamente… 450 candidati alle Amministrative per una popolazione votante di poco più di 20.000 cittadini non sono mica pizza e fichi!). Anche perché se non ci si appassiona alle persone, ai pensieri, ai sogni che senso ha vivere? E allora mi infervoro e mi appassiono e se c’è di mezzo la politica ancora di più. E se parliamo di politica americana e del suo connubio con il Quarto Potere, beh, allora, signori, il gioco è fatto!
Tutti gli uomini del Presidente e Le idi di Marzo, Political Animals e ora House of Cards: tutte opere che ruotano attorno alla politica (americana ovviamente…noi al massimo abbiamo Il Caimano…) e alla stampa, al rapporto ambivalente e ambiguo che intercorre tra le due.
House of Cards è l’ultimo in ordine di tempo ad avermi ammaliata. E’ inutile dirvi “guardatela”, perché se ne sto scrivendo vuol dire che DOVETE guardarla! I primi due episodi sono un colpo allo stomaco, perché in meno di due ore si ha una descrizione piena delle dinamiche interne alla storia, della psicologia dei personaggi e della costruzione del racconto… Certo, avere alla regia David Fincher aiuta e non poco, ma sono le dinamiche narrative a essere interessanti.
La base shakespeariana del racconto è lampante, il riferimento primario a Macbeth è indiscusso sin dalla costruzione del rapporto tra Frank Underwood (interpretato da un superbo Kevin Spacey che non mi creava questa attrazione/repulsione dai bei tempi di I soliti sospetti) e sua moglie Claire (una Robin Wright che giustamente si è aggiudicata il Golden Globe per questa Lady Macbeth del XXI secolo), ma se in Macbeth le azioni personali sono influenzate e quasi guidate dal destino, in HoC la componente “destino” o “fato” non esiste, perché nella politica non si crede alla fortuna.
La politica è una costruzione di rapporti di forza e di influenza che gira attorno alla natura stessa del Potere. Frank non mira al denaro, ma al Potere, poiché, come afferma egli stesso, il denaro è labile, il Potere è una casa di pietra che dura decenni. Quella tra denaro e Potere non è la sola dicotomia che viene evidenziata. Spesso lo stesso Frank usa paragoni dicotomici per esplicare le mosse del suo gioco: lupi vs pecore, gregge vs branco, in una descrizione non morale delle azioni che si trova a compiere.Ed è qui che sta anche l’aspetto geniale di House of Cards, poiché Frank Underwood abbatte la quarta parete e si pone in relazione diretta, attraverso dialoghi e sguardo in macchina, con lo stesso spettatore.
Non vi è condanna morale in House of Cards, ma l’esplicitazione di un punto di vista assolutamente disturbante per il cinismo estremo condito da sprazzi di abbagliante umanità che stordiscono lo spettatore più dei giochi di potere. L’espressione di Claire in una caffetteria dinanzi a una cassiera di mezza età che ha difficoltà a utilizzare la tecnologia è di un’umanità quasi imbarazzante, poiché poche scene prima la stessa Claire aveva licenziato metà del suo staff, compresa la sua più stretta collaboratrice che le aveva rinfacciato la difficoltà a 59 anni di trovare un altro impiego. Così come Frank si trova a dover sbattere in faccia a un barbone che urla fuori dal Campidoglio la triste verità che può urlare quanto vuole, ma a nessuno interesseranno mai le sue urla, salvo poi dare ordine di aiutarlo dandogli una giacca e qualcosa da mangiare.
E il rapporto con la stampa e di come manipolare l’ambizione altrui è tutta nel rapporto che Frank instaura con Zoe, la giornalista rampante, ma non lasciamoci ingannare: lo sfruttamento è reciproco. Zoe non è la povera giornalista alle prime armi ingenua e sprovveduta e il suo rapporto con la veterana Janine, corrispondente alla Casa Bianca per la testata giornalistica per la quale scrive Zoe, ricalca molto le dinamiche interne al classico di Joseph L. Mankiewicz Eva contro Eva.
Come dicevo anche prima, il merito di House of Cards non sta solo nella profonda disamina della Politica in ogni sua componente più abietta e cinica, ma soprattutto nell’umanizzazione dei suoi personaggi, come i riferimenti velati all’età di Claire con gli accenni alla sua menopausa.
Ed è per questo che vi consiglio di guardarla, per scoprire quelle schegge di umana realtà che si nascondono dietro quel velo di ipocrita dedizione che è la Politica.
“Sai cosa mi disse Francis quando mi chiese di sposarlo? Ricordo le testuali parole. Mi disse: “Claire, se cerchi solo la felicita’… dimmi di no. Non ti daro’ un paio di bambini e… non faro’ con te il conto alla rovescia fino alla pensione. Anzi, prometto di liberarti da quei pensieri. Prometto che non ti annoierai mai.”. Sai, è stato l’unico, e ce ne sono stati tanti altri che volevano sposarmi. Ma lui fu… l’unico… ad avermi capita. Non mi ha messa su un piedistallo. Sapeva che non volevo essere adorata o viziata. Così mi prese la mano… e mi infilò l’anello. Perché sapeva bene che avrei detto di sì. E’ un uomo che sa bene come ottenere ciò che vuole.“
(Claire Underwood, House of Cards, Chapter 6)