Fenestrelle, To (Piemonte) lager dei Savoia
Ancora ci ritroviamo a battere su questo tasto che, ahimè (ahinoi), è un argomento sconosciuto ai più. I lager, come già si è scritto precedentemente, non erano una realtà nuova all’epoca dei nazisti, e fu sperimentata in occasione della famigerata e plurifesteggiata (recentemente) Unità d’Italia dai piemontesi ai danni dei meridionali, o per meglio dire, dei borbonici.
Esisteva, ed esiste tutt’ora, una fortezza sulle Alpi, non molto distante da Torino, e chiamata Fenestrelle da “finis terrae”… una denominazione che apparirebbe romantica, e sicuramente tale appare ai turisti gaudenti che ci fanno visitine e foto turistiche del caso, se non fosse che… nel 1861 questa fortezza nulla avesse di gaudente o turistico: in questo posto furono deportati circa 40.000 soldati borbonici, meridionali quindi, che rifiutarono di tradire il proprio sovrano per prestare giuramento al nuovo (considerandolo usurpatore).
Chissà cosa penserebbero i turisti se scoprissero di aver fatto una scampagnata a Birkenau, o Auschwitz. (Bisogna anche dire che recentemente era stata posta una lapide in memoria di quei soldati deceduti… ma la gente del posto deve non aver gradito: poche settimane fa è stata ritrovata in pezzi. A 150 ancora non riusciamo a far i conti con la storia del nostro Paese.. come possiamo pensare di andare avanti come Nazione, sennò?)
Fenestrelle
Di costoro (i 40.000) nessuno tornò a casa; furono divelte le finestre dagli stipiti e lasciati i detenuti in maniche di camicia. All’occorrenza anche malmenati. La sopravvivenza media era di pochi mesi, e ancora oggi i turisti possono ammirare le vasche in cui venivano sciolti nella calce viva i cadaveri (motivo per cui non venivano riportate dichiarazioni di decesso… che è una dell presunte “prove” a discapito del “revisionismo storico”, e cioè a carico della storiografia ufficiale, che sostiene che nessuno fu ucciso a Fenestrelle, perchè nella parrocchia locale non c’è menzione di alcunchè a riguardo).
(Chi volesse approfondire, troverà molto interessante questo servizio realizzato per RAI da Massimo Bongiorno, visionabile nel link del sito Addunàrisi).
La brigantessa Michelina De Cesare, uccisa e fotografata nuda per dileggio dai piemontesi.
E tralasciando gli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, e gli stupri di massa, e l’applicazione della legge marziale a uomini, donne e bambini, di cui nella storiografia ufficiale non si fa menzione (dieci anni di guerra civile che nell’inconscio comune, a ben vedere, forse son rimasti come un sassolino in fondo al cuore… fateci caso…)… tralasciando campi incendiati, bestiami requisiti o distrutti, rapine, la tassazione per “pagare i costi della liberazione e l’unità” (i duosiciliani non avevano mai chiesto di essere liberati….da chi? I Borbone erano più napoletani dei napoletani stessi… non “francesi”, come i cosiddetti salvatori della patria nostrana: a proposito, quanti sanno che la dichiarazione del Regno quel 17 marzo 1861 fu fatta in francese… per L’Unita d’Italia?!)… tralasciando che il giorno dopo di quel famoso 17 marzo l’allora Primo Ministro affermò che il sud non avrebbe più prodotto, bensì sarebbe diventato il mercato per le merci del nord, e tralasciando la chiusura delle scuole per oltre dieci anni, dovuta all’applicazione delle leggi marziali al sud…
tralasciando tutto questo… la “deportazione di massa“, e le pratiche di “odio” ed “eccidio” di popolo furono sperimentate sul popolo del sud in anteprima europea.
Colgo l’occasione perciò per proporvi un articolo di Marisa Ingrosso, giornalista che per l’occasione si è dedita alla ricerca storica:
Storia, il Nord voleva una «Guantanamo» per la gente del Sud
di MARISA INGROSSO11 Ottobre 2009Per battere il brigantaggio, i piemontesi volevano aprire una «Guantanamo» in cui deportare tutti i meridionali. Le prove sono contenute nei Documenti diplomatici conservati presso l’Archivio storico della Farnesina e scovati dalla «Gazzetta».
Per quasi dieci anni, fino almeno al 1873, il Governo italiano le tentò tutte pur di avere un lembo di terra dalle potenze straniere per internare i meridionali ribelli. Subito chiese agli inglesi di impiantare una colonia di deportazione nel Mar Rosso. Trovando però le prime difficoltà, il 16 settembre 1868, il presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Luigi Federico Menabrea, si rivolse al ministro a Buenos Aires, della Croce, perché sondasse la disponibilità del Governo argentino a cedere l’uso di un’area «nelle regioni dell’America del Sud e più particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano come limite fra i territori dell’Argentina e le regioni deserte della Patagonia».
Secondo Menabrea (che era nato nell’estremo Nord Italia, a Chambéry, oggi in territorio francese), la «Guantanamo dei meridionali» doveva sorgere in terre «interamente disabitate».
Il 10 dicembre di quell’anno, Menabrea diede anche istruzioni all’agente e console generale a Tunisi, Luigi Pinna, di «studiare la possibilità di stabilire in Tunisia una colonia penitenziaria italiana».
Il tentativo fallì per l’opposizione dei tunisini e allora i Piemontesi tornarono alla carica con gli inglesi. Obiettivo: spuntare l’autorizzazione a costruire un carcere per i meridionali sull’isola di Socotra (che è al largo del Corno d’Africa, tra Somalia e Yemen) oppure, quantomeno, avere il loro appoggio affinché l’Olanda concedesse analoga autorizzazione nel Borneo.
Il 3 gennaio 1872 il Governo inglese però fece sapere di non vedere di buon occhio il progetto piemontese di fare «uno stabilimento penitenziario» nel «Borneo o in un altro territorio dei lontani mari». E il 3 maggio, il lombardo Carlo Cadorna, ministro a Londra, scrisse al ministro degli Esteri, Emilio Visconti Venosta (milanese e mazziniano della prima ora; nella foto a sinistra), che era stata bocciata «la richiesta italiana di acquistare l’isola di Socotra come colonia penitenziaria».
Il 20 dicembre di quell’anno anche l’Olanda espresse i suoi timori: i deportati meridionali avrebbero potuto evadere mettendo a rischio i suoi possedimenti nel Borneo.
Intanto, le carceri dell’Italia Unita traboccavano di meridionali e i briganti continuavano a combattere. L’11 settembre 1872, il “Times” pubblicò una lettera giunta da Napoli che metteva in luce la recrudescenza del brigantaggio in Italia. Il “Times” ci aggiunse un articolo di fondo in cui non si risparmiavano sferzate ai Piemontesi per l’incapacità di «eradicare completamente una così grave piaga».
È PEGGIO DELLA FORCA
Convinto che la paura della deportazione in terre lontane avrebbe spaventato i meridionali più di qualunque tortura e perfino della morte, il ministro degli Esteri, Visconti Venosta, decise di mettere alle strette gli inglesi. Il 19 dicembre 1872, a Roma, incontrò il ministro d’Inghilterra Sir Bartle Frere e gli parlò chiaro. Il suo discorso è ancora agli atti, negli Archivi della Farnesina. Disse: «Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti».
«Bisogna dunque pensare – disse il ministro della neonata Italia – ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti all’idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col più grande stoicismo incontro al patibolo».
Sir Bartle Frere prese tempo ma i piemontesi non si arresero. È del 3 gennaio 1873 un documento confidenziale in cui Cadorna ragguaglia Visconti Venosta sul colloquio avuto col Conte Granville relativamente alla «cessione di una parte della Costa Nord Est dell’isola di Borneo». Il rappresentante del Governo italiano disse al ministro degli Esteri inglese che i briganti «avvezzi a mettere la loro vita in pericolo, resi più feroci dalla stessa lor vita, salgono spesso il patibolo stoicamente, cinicamente (esempio tristissimo per le popolazioni!). Invece la fantasia fervida, immaginosa di quelle popolazioni rende ad essi ed alle loro famiglie terribile la pena della deportazione. In Italia, e massime nel Mezzodì, ove è grande l’attaccamento alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di non vedere più mai il sole natale, la moglie, i figli, di passare, e finire la vita in lontano ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è pensiero che atterrisce».
Granville però fu irremovibile: l’Inghilterra non avrebbe aiutato l’Italia a deportare i Meridionali.
MIGLIAIA IN CARCERE
Ma quanti erano i detenuti del Sud che marcivano nelle galere italiane? Secondo la rivista «Due Sicilie» (bimestrale diretto da Antonio Pagano), un’indicazione si trova in una lettera del savoiardo Menabrea, al ministro della Marina, il nizzardo Augusto Riboty. Menabrea sostiene che sarebbe stato «utile e urgente» trovare «una località dove stabilire una colonia penitenziaria per le molte migliaia di condannati» che popolavano gli stabilimenti carcerari.
A proposito della Marina militare, la Forza armata si prestò ad esplorare una serie di luoghi adatti alla deportazione dei meridionali. Il Borneo e le isole adiacenti, innanzitutto. ma anche – secondo documenti pubblicati da «Due Sicilie» – «l’est dell’Australia».
fonte: http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/
tramite: www.Eleaml.org