Ho un mio modo, che ritengo abbastanza sicuro, per giudicare se un’opera letteraria è una buon a opera o una cattiva opera. Forse non è un modo originale, e in un certo senso sono quasi certo che qualcuno molto più bravo di me lo avrà già brevettato in qualche saggio, o ne avrà dato conto durante una conferenza, o in un articolo di giornale, o in quello che volete voi. In ogni caso, il mio modo consiste in questo: se accade che, mentre leggo un romanzo, la mia realtà di tutti i giorni venga intaccata e modificata per il tempo che io impiego a leggere quel romanzo, vuol dire che sto leggendo un’opera letteraria di pregio; se al contrario non succede niente di tutto ciò, e ogni cosa che riguarda la mia vita, i miei pensieri, la mia percezione della realtà, rimane inalterata, allora quella che sto leggendo non è un’opera di valore letterario. Il buon romanzo riesce a incidere sul mio pensiero al punto da cambiare, anche per un breve lasso di tempo, il mondo che mi ruota intorno; il buon romanzo ha questa chiave di riserva con cui accede alla parte più intima e profonda di me, riuscendo a manipolarla, arricchendo il mio punto di vista e accrescendo la prospettiva attraverso cui guardo le cose. Ciò, in genere, succede per un periodo limitato di tempo, per poi tornare a essere tutto com’era prima. Ma poi c’è la grande opera letteraria, quella che riesce a fare ancora qualcosa in più: cambiare per sempre il mio presagio dell’esistente, fondare una sensazione nuova, un’impressione che non andrà più via. La grande opera letteraria si rivela alla distanza, spesso occorre che passino anni, agisce in profondità, e quando poi dirompe, trasfigura per sempre il mio codice percettivo. Ecco, sono in tutto una decina i libri che fanno questo, che si dispongono nei punti strategici della mia torre di Babele, e che le danno forma, contenuto e senso. Provate a pensarci, avete anche voi dieci libri così.
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