Pigmalione incatenato. Chiara Savettieri, L’incubo di Pigmalione. Girodet, Balzac e l’estetica neoclassica, Palermo, Sellerio, 2014
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di Giuseppe Panella
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1. Sarrasine on demand
Il breve romanzo Sarrasine di Honoré de Balzac, peraltro uno dei suoi più complessi nella stesura e nell’articolazione della narrazione, è anche uno dei suoi più inseguiti, direi lungamente perseguitati, dalla critica filosofica e letteraria. I saggi di Roland Barthes1 e di Michel Serres2 dedicati all’analisi e alla decostruzione di questo breve testo la dicono lunga sulla sua natura impervia e solo apparentemente facile e liscia (si tratta, in realtà, di una parete di montagna assai difficile da scalare la sua e per la quale occorrono attrezzi specifici e appositamente costruiti).
Per costruire la sua analisi dello stretto rapporto esistente tra la natura dell’arte e il suo legame con l’impossibilità della vita una volta che ci si è collocati al di fuori di essa, Serres, ad esempio, ha utilizzato, con sapienza e minuzia, la storia dello scultore Sarrazine e la sua straordinaria vicenda d’amore (la novella di Balzac è del 1830 ed è una delle sue più appassionanti tra le sue opere narrative dedicate alla relazione tra vicenda artistica e sentimenti amorosi, come lo saranno pure i successivi Gambara e Massimilla Doni). Già l’oggetto – come si è scritto sopra – di un’accurata e intrigante analisi strutturata da parte di Roland Barthes che è un vero e proprio capitolo fondamentale della storia della critica letteraria, il racconto di Balzac diventa, in questa occasione, una delle possibili dimostrazioni di che cosa sia il pensiero narrativo per Serres.
Come in un’altra sua singolare variazione tematica a partire da suggestioni letterarie3, anche in L’ermafrodito la prospettiva è teoretica, ma lo stile di pensiero è orientato nella direzione di una narrazione fluida e attenta ai particolari.
Serres capovolge la metodologia esibita da Barthes e non solo dal punto di vista formale : se il testo di Balzac apre il volume (mentre nel saggio barthesiano serviva come chiusa dell’opera) questo non avviene certo per caso. I risultati delle due indagini possono sembrare simili e suscitare degli interrogativi inquietanti sull’utilità della nuova indagine di Serres, ma l’apparente coincidenza di esse è soltanto il frutto della stessa scelta di campo e dell’oggetto della loro attenzione critica.
Barthes concludeva il suo saggio con la convinzione che S e Z rappresentassero l’inversione grafica dei nomi dei due protagonisti della novella (Sarrasine e Zambinella) ; Serres considera, invece, tale assunto soltanto come l’inizio di una vertiginosa escursione nel regno di una possibile “epistemologia delle arti”. La vicenda narrata da Balzac si rovescia in un apologo sul nesso tra scultura e musica, tra spazio e tempo, tra scrittura e filosofia.
Un breve riassunto della novella potrà servire a comprendere meglio il senso dell’operazione di Serres. Ad un ballo tenuto presso la ricchissima famiglia Lanty, a Parigi, un Narratore anonimo (che si intuisce però celare sotto la maschera dell’Io che racconta il volto stesso di Honoré de Balzac), accompagnato da una giovane marchesa di notevole bellezza, assiste e descrive ad un curioso spettacolo : tra la folla che gremisce la soirée mondana, tra donne eleganti che indossano i loro vestiti da sera più sontuosi e più costosi ed uomini che approfittano dell’occasione per concludere o iniziare conquiste femminili o concludere lucrosi affari, appare all’improvviso un misterioso vecchio decrepito, evidentemente un parente dei Lanty, i quasi si precipitano a circondarlo di cure fin troppo premurose. Il vegliardo emana un senso di gelo e di morte che il Narratore mette in rapporto con la sensazione di freddo che ha provato prima, mentre era assorto in una rapidissima rêverie sul senso dell’esistenza ; confrontando il paesaggio circostante in cui si scorgono degli alberi non ancora del tutto ricoperti dal gelo dell’inverno con lo splendido volteggiare delle coppie che danzano durante la festa, egli aveva avvertito incombente il fascino spettrale di una danse macabre che nasceva dalla contrapposizione dei due scenari. Fuori, allora, gli alberi scheletriti, la natura froide, morne, en deuil ; all’interno, gli uomini che, indifferenti a quella vista, si lanciavano in vorticosi giri di danza e simulavano la più perfetta delle gioie e la più ardente delle passioni. Di questo spettacolo egli aveva fatto une macédoine morale, moitié plaisante, moitié funebre : in una simile mescolanza e nella vertigine che essa produce, la cifra del racconto balzacchiano e la sua necessità “filosofica” diventano sempre più chiare con il proseguire del racconto.
La giovane donna che si accompagna all’anonimo Narratore è anch’essa sconcertata dalla vista del vecchissimo uomo la cui figura vestita di nero ha procurato in lei una rilevante sensazione di freddo. L’identità che gli viene attribuita è incerta : voci poco convincenti, indistinte lo indicano come un avventuriero che ha accumulato ingenti ricchezze al servizio del principe indiano di Mysore, altre lo identificano con Giuseppe Balsamo, il Gran Cofto, lo straordinario personaggio più famoso con il nome di conte di Cagliostro, altre ancora sostengono che si tratti di quel singolare personaggio che era stato il conte di Saint-Germain, il cosiddetto philosophe inconnu.
La ridda delle ipotesi qui riportate non è affatto secondaria o casuale : il fascino ed il timore emanati dal vegliardo sono tali da richiedere una spiegazione che renda ragione dell’attrazione e del mistero che egli suscita e che lo trasformi nella sintesi di ogni esistenza avventurosa ed enigmatica. In realtà, siamo in presenza di un geroglifico vivente e, come tale, di difficile, quasi impossibile decifrazione. Per questo motivo, come sosterrà Serres nel seguito della sua argomentazione, egli rappresenta l’enigmatica natura dell’arte, simbolo di quel lien commun à tous les arts che sfugge sempre a tutti coloro i quali cercano di coglierlo e di darsene una ragione.
La giovane marchesa è, contemporaneamente, attratta dalla presenza di un ritratto di splendida fattura : un Adone disteso su una pelle di leone che, per la gentildonna, è troppo bello per essere l’immagine di un uomo davvero esistito. Il Narratore rivela di essere a conoscenza della storia di quel ritratto, ma, sulle prime, appare riluttante a raccontarla : incalzato dalla civettuola pressione della sua accompagnatrice, accetta di rivelarle la verità la sera successiva.
Stimolata dall’incalzante curiosità della donna, la verità emerge lentamente : il personaggio più importante della vicenda, lo scultore Ernest-Jean Sarrasine, risulta una figura molto più complessa e misteriosa di quelle la cui identità veniva attribuita al vecchio di casa Lanty.
Ex-allievo dell’artista Bouchardon, già molto lodato da Diderot, Sarrasine era sempre rimasto in bilico tra genio e sregolatezza, poi, attratto irresistibilmente dalle vestigia del suo grande passato, a ventidue anni, si era recato a Roma per studiarne le grandi opere d’arte che custodiva.
Qui, per caso, al teatro Argentina, ascolta rapito una famosa cantante, Zambinella, e se ne innamora follemente. La corteggia con grande assiduità e, utilizzandola come modello e punto di riferimento ideale, realizza una statua che racchiude il meglio della bellezza femminile. Ma, quando dall’arte vuole ritornare alla vita e conoscere più intimamente quanto ha vagheggiato soltanto da lontano, scopre con orrore che la donna da lui amata e creduta di sesso femminile è, in realtà, un “castrato” dalla voce bianca. Accecato dal furore, tenta di uccidere la fonte del suo grande sconforto ma viene fermato dalle lame di tre sicari del cardinal Cicognara, il protettore illustre del cantante.
La statua viene esposta nel museo Albani e da essa il pittore Joseph-Marie Vien, il futuro maestro di David, trarrà l’ispirazione e il calco per quell’Adone che si ritrova ora nel boudoir di casa Lanty.
Zambinella è, quindi, in realtà, proprio il vecchio che è stato scorto durante la festa del giorno prima ed è l’artefice materiale della fortuna dei Lanty grazie alla munificenza del cardinal Cicognara suo protettore. Conosciuta la verità, la marchesa ne resta sconvolta e disgustata ; la chiusa è tutta dedicata a questo suo atteggiamento (et la marquise resta pensive).
Un uomo apparentemente bellissimo e virile si rivela un “castrato” impotente e la ricchezza di una famiglia al centro dell’attenzione del mondo parigino risulta il frutto non di un crimine (come in molti altri romanzi di Balzac) ma della compiacenza un po’ bavosa e ambigua di un principe della Chiesa.
2. Dalla S alla Z : la combinatoria delle arti
Anche Serres prova le stesse sensazioni della giovane donna : il suo saggio dedicato a Sarrasine rappresenta, di conseguenza, un tentativo di superare questa impasse e di rintracciare in qualche modo il “legame comune” tra tutte le arti.
Nel rovesciamento speculare della S di Sarrasine nella Z di Zambinella si ritrova l’assetto strutturale del racconto, come già aveva proposto Roland Barthes, ma con una differenza sostanziale.
Come la S si converte in Z e la Z in S, così la musica si trasforma, nel corso del racconto, in scultura, la scultura in pittura, la pittura in narrazione ed il momento narrativo ancora in musica, durante la festa da ballo, in un gioco di rimandi artistici reciproci in nome della possibile traducibilità dei linguaggi che fanno loro da referenti.
La nouvelle de Balzac explore l’altérité : comment passer de gauche à droite, de l’autre coté du miroir, du sens, de la valeur, de la mappemonde ou de sa propre langue? Elle comble parce qu’elle ôte tout barrage devant la traversée. Nouvelle sans inquiétant étrangeté.
Zambinella si palesa dapprima come donna, poi come cantante evirato, infine come vegliardo per poi trasformarsi in statua, in quadro ed in macchina narrativa per sedurre la giovane marchesa ; esso rappresenta, per Serres, l’ermafrodito che presiede il concerto delle Muse e sul quale incombe la morte.
Sarrasine ressuscite Hermaphrodite comme champion de l’inclusion et condition de l’oeuvre, née de la plénitude additionelle du sens. Sarrasine ou l’androgyne surabondant : il faut concevoir Hermès comblé.
Introdurre la figura dell’ermafrodito consente di provare a risolvere il problema della simmetria e del suo funzionamento : infatti, spazio e tempo (scultura e musica, statua ed opera lirica) sono momenti speculari della rappresentazione, concettualmente comprensibili soltanto alla luce del principio di corrispondenza biunivoca tra le parti.
Ma, pur essendo simmetrici, essi come le immagini che si vedono riflesse nello specchio, sono incongruenti, non sovrapponibili.
Kant, analizzando questo paradosso negli anni tra il 1770 e il 1786, era stato costretto a fare ricorso alla geometria dei solidi per risolverlo (come avviene, infatti, nel caso della cristallografia) ; Balzac, attratto dallo stesso inquietante problema, lo ha affrontato dal punto di vista dell’osservazione morale : Sarrasine, secondo l’analisi fattane da Serres, rappresenta il suo tentativo di risolvere lo stesso paradosso che aveva affascinato Kant dal punto di vista della corrispondenza tra le arti.
Balzac plongé corps et mains dans cet espace n’a pas le recours à ce formalisme rigoureux [la geometria dei solidi cui aveva fatto ricorso Kant]. Il décrit soigneusement un même partage de symétriques mais opposés, chaud et froid, deuil et joie, danse et non danse, mouvement et fixité rigide, que les tropes ou figures de rhétorique comme l’antithèse ne suffisent pas à décrire. L’antithèse sort d’une logique trop pauvre pour exprimer les faits d’orientation.
Lo stesso Balzac, secondo Serres, è stato preso dalla vertigine della simmetria non-congruente : al suo vero cognome, Balssa, ha sostituito una Z, il che lo ha trasformato in un discendente del letterato seicentesco Guez de Balzac (non a caso, poi, uno dei corrispondenti dello stesso scultore Sarrasine). Anche per lui, allora, varrebbe la stessa inversione speculare tra S e Z. Il criterio dell’osservazione della realtà lo trasforma, a sua volta, in una figura ambivalente capace di descrivere la psicologia femminile allo stesso modo di quella maschile.
Nella sua prospettiva artistica, tale capacità di scendere nel profondo dei suoi personaggi diviene lo strumento di un’indagine sempre più raffinata.
«Il luogo che Balzac vuole occupare è quello che sta fra follia e scienza sull’orlo dell’abisso. E’ il punto di vista da cui possiamo scorgere che anche i gesti abituali tradiscono la tensione dell’altro. Che anche le cose, che abitualmente sembrano poterci pacificare con la loro consistenza, hanno un bordo oscuro, o sprigionano una luce che è la loro realtà metafisica. Forse nessuno può sottrarsi all’abisso»4.
Spingendosi alla ricerca della realtà metafisica delle cose, Balzac cerca di ritrovare nelle diverse forme artistiche un “comune legame” che le unifichi e le comprenda : esso sarà costituito, come in tutti gli altri Études philosophiques, dal destino dell’artefice che resta schiacciato dalla bellezza della sua opera, mentre vorrebbe servirsene come strumento di sopravvivenza (il richiamo alla sorte tragica del pittore Frenhofer in Il capolavoro sconosciuto viene spontaneo).
Sarrasine, attirato unicamente dalla musa della scultura durante la sua breve vita, trova la morte nell’incontro con la musica, ma proprio dal loro veloce intersecarsi nasce l’opera destinata a sopravvivergli. Anzi – scrive Serres – “sovrabbonda” di senso, alimentando altre opere (l’Adone di Vien che ispirerà l’Endimione di Anne-Louis Girodet) : per sua natura, l’arte si nutre della vita dei suoi artefici, ma, proprio da questa simbiosi, trae l’energia sufficiente per mantenersi autonoma. Analizzando il funzionamento interno di Sarrasine, tuttavia, anche Serres si ferma (come già era avvenuto con il saggio di Roland Barthes) di fronte all’enigmatica chiusa della vicenda : in S / Z, la “pensosità” diveniva apertura nei confronti dell’inesprimibile, ulteriore ricerca di un significato che non può essere ancora afferrato ; in L’ermafrodito, invece, essa rappresenta la sovrabbondanza del senso che diventa sua sospensione definitiva. Le Pierres Sarrasines sono, in francese, quei menhirs che presentano una totale estraneità a ciò che li circonda e vivono, come accade in analoghe situazioni a Stonehenge o sull’isola di Pasqua, ad esempio, del loro essere assolutamente originario e primordiale. Senza memoria, senza senso, pensosi – come l’impassibile monolito che in 2001 : Odissea nello spazio di Stanley Kubrick allude a un inesplicabile futuro che affonda le sue radici nella impossibile ricapitolazione della Storia.
3. Girodet e Balzac in relazione estetica
A questo filone di ricerca sulla novella di Balzac, inaugurato da Barthes nel 1973 e proseguito da Serres, appartiene la ricerca di Chiara Savettieri che mescola la ricostruzione del percorso artistico di Anne-Louis Girodet alla rivisitazione dell’opera balzacchiana e ne mostra le interrelazioni a livello di cultura estetica (soprattutto pittorica ma non limitandosi ad essa).
Il pregio principale del libro è quello di introdurre all’interno dell’analisi della novella il concetto estetico di Sublime (il che non accadeva né nel profilo letterario di Barthes né in quello teoretico di Serres) e farlo interagire con la dimensione neoclassica della pittura cui Balzac stesso fa riferimento. Richiamandosi a Winckelmann e alla sua Storia dell’arte nell’antichità, la Savettieri sostiene che la rappresentazione di Pigmalione induce alla contemplazione di ciò che è spiritualmente elevato e ricco di quel pathos che induce l’anima a pensieri superiori :
«C’è un altro passo celebre in cui vi è una significativa evocazione del mito di Pigmalione. Nella conclusione della descrizione dell’ Apollo del Belvedere, classico esempio di ékphrasis winckelmanniana tutta giocata sull’onda dell’emozione e dell’entusiasmo, l’autore dichiara : “Alla vista di questa meravigliosa opera dimentico tutto il resto, e io stesso assumo una posizione elevata per contemplarla con la dignità che merita. Il mio petto sembra allargarsi e sollevarsi di venerazione come quello che vedo gonfiarsi dallo spirito del vaticinio, e mi sento trasportato a Delo e nei boschi della Licia, luoghi onorati da Apollo con la sua presenza : la mia visione sembra infatti ricevere vita e impulso come la bellezza di Pigmalione”. Il capolavoro eleva l’animo dello spettatore – chiaro rimando all’Anonimo del Sublime – , lo trascina illusoriamente nei luoghi sacri dell’antichità e gli dà l’impressione di prendere vita. Pigmalione incarna quindi l’immagine dell’artista creatore capace di fondere l’ideale con una illusione di vita che non ha niente a che vedere col trompe-l’oeil illusionistico : questa parvenza di vita, infatti, non può e non deve intaccare l’idealizzazione della forma. E’ proprio in questa accezione che Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, acuto interprete di Winckelmann in Francia, considera Canova come un nuovo Pigmalione. Secondo Quatremère le statue dello scultore non sembrano opere d’arte ma delle “creature” dalla bellezza ideale e contemporaneamente bagnate di natura e di vita, cioè di grazia»5.
Partendo da questo spunto di riflessione, la Savettieri ricostruisce non solo la trama e i temi del breve romanzo balzacchiano6 ma li analizza alla luce dell’opera di Girodet stesso e della sua proposta di poetica pittorica, giungendo a creare un ponte critico con l’opera di Canova e la sua proposta neoclassica e onnicomprensiva di attività artistica come “illusione della vita” (un tema già presente in Girodet come capacità di tromper la mort in nome di un superamento delle necessità umane legate alla natura). Il legame tra Canova e Girodet è rintracciato dalla Savettieri nel Panegirico dello scultore veneto ad esso dedicato da Pietro Giordani il 28 giugno 1810 in cui temi molto simili di entrambi gli artisti costituiscono la materia dell’elogio estetico dell’artista italiano.
Scrive, infatti, la studiosa palermitana a questo proposito :
«E’ significativo ritrovare in un personaggio vicino a Canova una poetica molto simile a quella di Girodet : per entrambi è dal sentimento del sublime che scatta il desiderio di dare stabilità a ciò che si ama; sia in Giordani che in Girodet – e aggiungerei in Foscolo – una visione materialistica del mondo convive con l’illusione dell’immortalità che può dare l’arte. Il mondo di Canova e quello di Girodet non appaiono allora distanti, e tutto ciò non solo ci permette di capire meglio il significato della commissione di Sommariva al nostro pittore, ma anche di comprendere che tutta una parte dell’estetica neoclassica è volta a questa “lotta contro la morte”. Ciò ci consente di cogliere la ragione per cui il mito di Pigmalione, in cui un essere inerte, dunque morto, prende vita, sia di grande attualità in quest’epoca, e di comprendere che due suoi grandi protagonisti, Canova e Girodet, seppure in modo differente, sembrino a loro modo incarnarlo »7.
Proprio per questa loro contiguità estetica, il legame costituito dall’adesione al tema del Sublime come forma più adeguata dell’opera d’arte è di grande importanza e incisività e costituisce un rapporto ulteriore con l’opera di Balzac stesso che proprio del Sublime è stato utilizzatore frequente e potentissimo sia come metafora storica che come prospettiva psicologica.
Quello che il libro di Chiara Savettieri mostra esaurientemente, allora, è l’importanza e direi anche la circolarità dell’opera di Girodet : pittore amato da Balzac che lo presenta come suo punto di riferimento in molti dei romanzi di La Comédie Humaine8, le sue opere ruotano intorno alla necessità di creare piuttosto che di riprodurre, di individuare nuovi punti di vista nella rappresentazione del mito piuttosto che nell’opera di “naturalizzazione” del suo legato classico.
Ma Balzac è anche in grado di cogliere il forte limite estetico e umano presente in Girodet nel momento in cui lo mette in scena come il pittore Frenhofer in Il capolavoro sconosciuto9.
Nella tragica illusione del protagonista di questo testo famosissimo, la forma rappresentativa della pittura crea un muro di impossibilità di fronte allo sguardo dello spettatore e ne impedisce la visione e la stessa comprensione. Il pittore che si pone di fronte alla sua opera d’arte senza averla prima resa disponibile alla fruizione da parte dello spettatore cui apparterrà allo stesso titolo per cui è nata dal suo sforzo artistico (e cioè la rappresentazione di una poetica artistica condivisa e condivisibile) è destinato allo scacco di Frenhofer : la morte indotta per fuoco (nell’edizione uscita nel 1837) o per disillusione che corrisponde alla contemporanea fine delle illusioni in un’arte totalmente ”viva” e capace di rendere immortale ciò che è pur sempre destinato a perire.
Balzac coglie con durezza e poeticità insieme l’impossibile sogno presente nell’estetica di Frenhofer / Girodet :
«Nella vicenda raccontata da Balzac sono presenti tutti i punti fondamentali della concezione estetica e della biografia di Girodet : l’amore morboso per la propria opera ; l’illusione che l’ideale diventi reale, che l’artista possa essere creatore e nello stesso tempo imitatore della natura ; la vita appartata dell’artista. Ma questi aspetti sono osservati da un punto di vista ribaltato, come avviene in Sarrasine e nella Maison du chat-qui-pelote. L’artista non può rappresentare l’assoluto e la natura contemporaneamente; non può creare l’ideale e misurare la sua creazione secondo un criterio di identità con la natura. Se lo fa, non genera una Galatea, il bello assoluto vivente, ma un mostro, un frammento muto. Certo, il Pygmalion et Galathée di Girodet è l’esatto contrario della “muraglia” di frenhofer, ma sotto un certo punto di vista è anch’esso un fallimento, opposto e simmetrico rispetto a quello del protagonista balzacchiano : come s’è visto dai commenti dei contemporanei, l’opera ingenerò un’impressione di freddezza, di eccesso di esprit, l’esatto contrario dell’effetto che dovrebbe suscitare il mito di un’opera d’arte che diventa vivente. L’opera di Girodet è aporetica tanto quanto quella di Frenhofer : dovrebbe rappresentare l’ideale che si fa natura, vita, passione, ma di fatto è un’allegoria, resta imprigionata in un’idea… »10.
Nel mito di “un’opera d’arte che diventa vivente”, allora, si nasconde la necessità di una riverberazione allegorica e, dietro quest’ultima, il “volto di un teschio” che ne profetizza la morte (come scrive Walter Benjamin nel suo Dramma barocco tedesco della scrittura barocca).
La “vita eterna dell’arte” è la sanzione della sua scomparsa prossima ventura perché nella presupposizione d’eternità che insinua nell’artista si cela il suo rovesciamento. Anche se l’opera continuerà a vivere e durare, lo sarà in nome di qualcosa di diverso da quanto il suo autore voleva e la morte sommergerà comunque le sue intenzioni nell’indistinto dell’oblio e del misunderstanding. Sopravvivrà soltanto ciò che costituisce la sostanziale “verità” del progetto artistico e cioè la sua rappresentazione come evento conoscibile e comunicabile, ciò che lo rende comprensibile ai suoi fruitori successivi e futuri, senza mediazione dell’artista.
NOTE
1 Cfr. R. BARTHES, S / Z. Una lettura di “Sarrazine” di Balzac , trad. it. di L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1973.
2 Cfr. M. SERRES, L’ermafrodito. Sarrazine scultore, con il racconto Sarrazine di Balzac, trad. it. di M. Marchetti, Torino, Bollati Boringhieri, 1989. Su di esso mi permetto di rimandare alla mia recensione apparsa in “Belfagor”, (XLIII), V, 30 settembre 1988, pp. 603-607. La mia analisi del testo di Serres, tuttavia, si riferisce all’edizione originale dell’opera – che è stata edita del 1987 – e non alla sua traduzione in italiano come, d’altronde, continuerò a fare anche in questa occasione.
3 M. SERRES, Distacco, trad. it. di A. Zanetello, Palermo, Sellerio, 1988.
4 F. RELLA, Notizia in H. de BALZAC, Teoria dell’andatura, a cura di F. Rella, Venezia, CLUVA, 1986, p. 73.
5 C. SAVETTIERI, L’incubo di Pigmalione. Girodet, Balzac e l’estetica neoclassica, Palermo, Sellerio, 2014, p. 15.
6 Sullo stesso tema, cfr. l’ormai classico P. LAUBRIET, L’intelligence de l’art chez Balza. D’une esthétique balzacienne, Paris, Didier, 1961 (poi ristampato a Genève, presso Slatkine Reprints, 1994) e M. EIGELDINGER, La philosophie de l’art chez Balzac, Genève, Slatkine Reprints, 1998.
7 C. SAVETTIERI, L’incubo di Pigmalione. Girodet, Balzac e l’estetica neoclassica cit. , p. 87. Giovanni Battista Sommariva è il geniale mecenate e uomo politico milanese che commissionò a Girodet il suo capolavoro Pygmalion et Galathée, considerato il “canto del cigno” del pittore francese e dell’estetica pittorica neo-classica.
8 La studiosa palermitana ritrova molto frequentemente e con facilità ermeneutica molte tracce di Girodet nei testi narrativi di Balzac : “Girodet per Balzac è il poeta di creature pure e ideali : Béatrix aveva “i capelli d’angelo”, come molte creature del nostro pittore e si vestiva come le fanciulle di Ossian “così poeticamente dipinte da Girodet” ; in Le Bal de Sceaux vi è “una giovane pallida” che danza ed appare “simile a quelle divinità scozzesi che Girodet ha raffigurato nella sua immensa composizione dei guerrieri francesi ricevuti da Ossian”; in La Bourse l’infermiere improvvisato di Schinner “possedeva anche quella poesia che Girodet conferiva alle sue figure fantastiche”. Ne La Vendetta la pittrice Ginevra di Piombo trova, nascosto nell’atelier del suo maestro Servin, un giovane ufficiale di Napoleone, che vi si è rifugiato dopo la caduta dell’Imperatore. Il giovane è sorpreso dalla fanciulla mentre dorme e, uscendo poi dall’ atelier, ella porta “impressa nel suo ricordo l’immagine di una testa d’uomo graziosa come quella dell’ Endymion, capolavoro di Girodet che aveva copiato qualche giorno prima” ; la scena del giovane addormentato, d’ispirazione girodettiana, costituisce il nucleo generatore del racconto incentrato sull’amore, destinato a una tragica fine, di Ginevra per l’ufficiale” (C. SAVETTIERI, L’incubo di Pigmalione. Girodet, Balzac e l’estetica neoclassica cit., pp. 54-55).
9 Su questo breve romanzo balzacchiano, cfr. il bel libro di P. PELLINI, Il capolavoro sconosciuto di Balzac. Generi, ideologie, dettagli, San Cesario di Lecce, Piero Manni, 1999.
10 C. SAVETTIERI, L’incubo di Pigmalione. Girodet, Balzac e l’estetica neoclassica cit.,p. 113.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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