La Grande Guerra. Andrea Molesini, Non tutti i bastardi sono di Vienna, Palermo, Sellerio, 2010
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di Giuseppe Panella*
Anche i topi diventano “oggetti d’affezione” culinaria quando le derrate alimentari diventano scarse e non si trova più nulla da mangiare. Quando tutto manca, anche gli abitanti delle fogne vanno bene, soprattutto arrosto (la stessa fine, tuttavia, fanno anche i gatti, i loro nemici tradizionali). Lo dimostra l’abilità dimostrata dal prete del paese nell’infilzarli:
«Si girò di scatto verso la porta, come se avesse intuito una minaccia. Dal cassetto uscì un coltello lungo due spanne. La lama gli luccicò fra le dita, poi accanto alla faccia, sopra la spalla. Tirò. Un tonfo. Era un ratto, e si contorceva, inchiodato alla base della porta. Io e Giulia ci guardammo, muti, inorriditi. “Ti ho preso, bastardo!”. Il don ridacchiò e, sottovoce, aggiunse: “Non tutti i bastardi sono di Vienna”. Quel prete corpulento era agile e svelto come un malandrino di strada. Un sorriso gli univa gli orecchi e il nemico, Satana o l’Austriaco che fosse, non c’era più: in quel ratto trafitto, con le zampette aperte a croce, il don non vedeva una creatura delle fogne, ma un manicaretto da gustare in santa pace» (p. 287).
E’ il parroco di Refrontolo, don Lorenzo, a pronunciare la frase che darà il titolo a questo primo romanzo di Andrea Molesini sintetizzando in questa dichiarazione lapidaria e piuttosto brutale il senso delle vicende che vi vengono raccontate.
I “bastardi”, infatti, sono dappertutto e non soltanto dalla parte avversa.
La guerra, chiunque la faccia e chiunque la propugni, è una macchina di morte che il senso dell’onore e il patriottismo sbandierato bolsamente e retoricamente soprattutto da chi non la fa non sono mai in grado di giustificare. Se ne accorgono ben presto gli abitanti di Villa Spada, posta a non molti chilometri dalle rive del Piave, che vi abiteranno durante il periodo della disperata resistenza da parte dell’esercito italiano sulle sue sponde insidiate dal l’ultimo, forsennato tentativo di sfondamento da parte delle forze austro-tedesche. Nell’arco di tempo che va dal 9 novembre 1917 al 30 ottobre 1918 nella villa e nelle case del paese che è poco lontano si verificheranno molte avventure sia esteriori che interiori.
In quel lasso di tempo di meno di un anno, vi saranno consumati amori disperati o puramente platonici, ci saranno suicidi ed esecuzioni pubbliche, fughe e azioni di sabotaggio (queste ultime forse un po’ troppo ingenue per non essere scoperte dal nemico) e il protagonista principale della storia, il giovane Paolo, avrà il tempo di conoscere il sesso come l’altra faccia dell’amore, morire fucilato per spionaggio e poi rinascere per un puro colpo di fortuna, combattere contro il nemico austro-ungarico, conoscere la fame e le avversità del freddo invernale e, in una parola, maturare: diventare da giovane “figlio di famiglia” un uomo compiutamente sviluppato sia nel fisico che nello spirito. Nella villa, insieme all’orfano Paolo (disamorato dei suoi genitori fin da prima che morissero nella “Grande Sciagura”, il naufragio del transatlantico Empress in cui erano scomparsi prematuramente), vivono la nonna Nancy, donna forte e decisa che ha il marito un rapporto intenso ma alquanto ambiguo (si lascia corteggiare impunemente da un misterioso Terzo Fidanzato, un certo Pagnini, uomo sciocco e vanesio ma a lei fedelissimo), il nonno Guglielmo che passa il tempo nel suo studio a scrivere un fantomatico romanzo che non concluderà mai; la zia Maria, appassionata di matematica che è convinta di avere un ascendente sugli uomini (nel caso il capitano tedesco Korpium e il maggiore viennese barone Rudolf von Feilitzsch) che, al momento opportuno, tuttavia, si rivelerà incapace di fermare il corso degli eventi. Ci sono anche i servitori, ovviamente, come in tutti i palazzi nobiliari che si rispettino: la straordinaria e bizzosa cuoca Teresa, la sua scombinata figliola Loretta (che diventerà alla fine confidente degli austriaci e poi morirà suicida per le sue delusioni amorose) e il claudicante Renato che si rivelerà, tuttavia, un maggiore dello spionaggio italiano in missione nelle terre del nemico. Ma c’è anche il feroce “oggetto del desiderio” di Paolo, la giovane Giulia che gli si concederà a tratti e poi si ritrarrà senza spiegazioni facendogli provare i morsi della gelosia più aspra e cocente.
Molesini scrive, con questo suo esordio narrativo, una sorta di trasposizione storicamente documentata ma ambientata un secolo dopo delle architravi narrative su cui si fondano Le Confessioni di un italiano, il capolavoro di Ippolito Nievo (visto che, come nel mastodontico romanzo dello scrittore padovano, al centro della vicenda c’è una casa patrizia e la famiglia che lo abita con tutti i suoi componenti bizzarri e strazianti, umanamente toccanti e gustosamente tratteggiati). I personaggi del romanzo di Molesini, tuttavia, sono meno grotteschi di quelli di Nievo e in essi c’è un’umanità dolente e malinconica che spesso manca nel modello utilizzato.
La guerra tocca e raggiunge tutti, anche coloro che – come i nobili Spada – se ne ritenevano indenni. Questo porterà la nonna Nancy ad elaborare un (modesto) sistema di comunicazione con l’aviazione degli Alleati, il nonno Guglielmo a utilizzarlo a costo della vita e Paolo e Renato a farne ragione stessa di vita – per comunicare i passaggi e i movimenti delle truppe austro-tedesche vivranno una serie di avventure che si concluderanno tragicamente.
Tra i tutti i molti personaggi che popolano la storia narrata da Molesini, alcuni – come è giusto – spiccano più degli altri. Questo certamente non accade con il giovane Paolo la cui figura, tutto sommato, è ancora informe se non scialba: troppo giovane per aver vissuto vere esperienze esistenziali, è sempre alla ricerca di un padre più significativo di quello suo biologico, scomparso in fretta e surrogato per un po’ di tempo dai padri gesuiti del collegio dove lo avevano collocato per non averlo tra i piedi. In un primo tempo, questo ruolo sarà assunto dal nonno Guglielmo, bizzarro buddista e personaggio abbastanza eterodosso da attirare su di sé l’attenzione e l’ammirazione del nipote. Le sue idee sugli italiani e il loro carattere sono peculiari e assolutamente anticonformiste:
«”Noi italiani siamo figli di preti, odiamo la gioia. Ci fa paura. I forestieri dicono che siamo gente allegra, ma sbagliano. All’allegria tarpiamo le ali appena spunta nelle grida di un bambino, perché le grida disturbano. Ma il mondo va disturbato, eccome!”. Mi guardò, di nuovo senza vedermi. “Queste sbarre che m’imprigionano io le ho costruite piano piano, giorno dopo giorno, negli anni. Sono fatte della mia paura di disturbare il mondo”. Spense il sigaro nel portacenere che teneva accanto a Belzebù[1]. Intrecciò le dita dietro la nuca e premendo la schiena sulla seggiola scricchiolante alzò gli occhi al soffitto. Qualcosa che rassomigliava a un’espressione serena s’impadronì della sua faccia, e un sorriso gli spuntò sotto i baffi che non aveva più: era di nuovo il nonno di sempre, con la faccia che rideva anche se era triste» (p. 171).
Anche la cuoca Teresa è un personaggio di quelli che spiccano tra i tanti meno significativi. La sua espressione prediletta “Diambarne dell ‘ostia” (“Diavolo dell’ostia”) in cui la dimensione blasfema è attenuata fino a renderla pittoresca ne fa qualcosa di più di una macchietta: la sua fedeltà alla famiglia, il suo spirito di adattamento alle circostanze anche le più difficili e perigliose, la sua straordinaria abilità di cuoca che fa diventare succulenti anche i topi e i gatti che passa il vitto disponibile sotto il fuoco della battaglia la rendono memorabile. E anche don Lorenzo, prete un po’ goffo e apparentemente cinico, dimostra la sua grande umanità una volta pressato dalle circostanze avverse. Anche la zia Maria si dimostra all’altezza della situazione quando la chiesa del paese viene trasformata in ospedale provvisorio da campo e i feriti si ammucchiano l’uno sull’altro sulla sua stretta superficie – trasformata in infermiera di guerra, darà il meglio della sua abnegazione e del suo spirito di sacrificio (come Rossella O’Hara nel libro di Margaret Mitchell ma soprattutto in alcune delle epiche scene del film diretto da Victor Fleming e interpretato da Vivine Leigh). Dopo l’inizio della battaglia sul Piave del 15 giugno 1918, la situazione italiana sembra compromessa:
«Nel tardo pomeriggio la chiesa già straripava di feriti; i meno gravi li mettevano nella stalla, fra i muli. Austriaci, ungheresi, bosniaci, cechi, polacchi, montenegrini; e c’erano anche i primi prigionieri italiani. Dalla finestra vedevo la fila senza fine dei carri scaricare fanti coperti di sangue, che poi barellavano in tutte le direzioni. Più di una volta, quel giorno, vidi uomini senza gambe, senza mani, o con la testa ridotta a un grumo di bende. E più di una volta dovetti farmi forza per non dare di stomaco. I duelli aerei non ci facevano più alzare la testa. I caccia con le insegne sabaude mitragliavano le strade di continuo e due vennero abbattuti. Da una carlinga estrassero un tronco nero che puzzava di bistecca a quindici metri. “Mio Dio, fa’ che questo finisca” ripetevo fra me» (p. 235).
Allora, nonostante le avventure singolari dei singoli personaggi e lo sviluppo articolato dei loro destini, il vero protagonista del romanzo di Molesini è sempre lei: la Grande Guerra. Atroce, inumana, ineludibile.
NOTA
[1] Belzebù è il nome affibbiato alla mastodontica macchina da scrivere Underwood con cui il nonno sostiene di star scrivendo il suo grande romanzo.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)