Cronaca di una solitudine annunciata. Barbara Garlaschelli, Non ti voglio vicino, Milano, Frassinelli, 2010
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di Giuseppe Panella
Non ti voglio vicino è un libro tragico. Non a caso racconta una serie di impossibilità a essere: la difficoltà a comunicare tra madre e figlia, tra sorella e sorella, tra marito e moglie, tra madre e figlia ancora fino alla fine. Narra dell’impossibile amore di un uomo perdutamente preso dalla donna che gli ha sconvolto il cuore e la mente e una donna che non sa quello che vuole se non che vorrebbe essere sempre altrove. Non ti voglio vicino è anche la storia di un abuso sessuale subito nell’infanzia che porta a compimento i suoi frutti malati nel momento in cui chi ne è stata la vittima vorrebbe dimenticarlo e non può e continua a sentire che le conseguenze di quel gesto operano ancora nel profondo di se stessa.
Maddalena detta Lena è una ragazza bellissima e inquietante – il suo desiderio di libertà si scontra con le convenzioni dell’epoca (il fascismo prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e gli anni della Prima Repubblica) e con la mancanza di uno sbocco al desiderio di vivere e di sapere che si porta dentro fin da giovanissima. L’incontro fatale con la superiora del collegio dove studia, suor Carolina, la donna che abusa di lei e della sua mente più del suo corpo, la segnerà a fondo e non la lascerà più vivere una vita tranquilla, serena, affidata ai sogni di un futuro felice che ne riscatti la povertà e l’incertezza del presente. Nelle mani della suora senza fede che fa di lei la propria amante precoce, Lena comincia lentamente a morire:
«E’ fuori da se stessa. Lena si vede come se fosse riflessa in uno specchio. Vede il suo corpo nudo, vede le mani di suor Carolina che l’accarezzano, vede i loro volti vicini, ma non sente niente. E’ solo sguardo. E’ come se tutto ciò che la circonda cominciasse a diventare troppo vivido. La fiamma della candela sul tavolino è più luminosa che mai. La lama di luce che entra dalla finestrella in alto è abbacinante. Il corpo di Lena è lì, ma lei è altrove»[1].
Lena vorrà fuggire altrove per tutta la vita ma non ci riuscirà, neppure quando avrà una figlia, Prisca, della quale occuparsi e mediante la quale cercare di riscattare il suo destino.
Ma il romanzo di Barbara Garlaschelli è anche la storia del destino di Lorenzo, condannato a un amore impossibile per Lena fin dalla prima volta in cui si sono incontrarti, un amore unilaterale e irto di asprezze, di tradimenti (da parte di lei che li consuma senza crederci e senza goderne), di sogni di felicità impossibili. Anche quello che il giovane elettrotecnico credeva che dovesse coronare il sogno della sua vita – il matrimonio con la bellissima ed enigmatica Lena – si rivelerà un tradimento e una beffa del destino, un’occasione perduta di felicità possibile, l’amarezza della gelosia e il fallimento di tutte le sue speranze (la donna sarà per il marito proprio quello che le dark ladies del periodo hollywoodiano del noir più avvincente rappresentano per gli uomini che cadono nella loro trappola e se ne innamorano). L’amore lancinante e senza speranze di Lorenzo per la donna della sua vita sarebbe solo un’occasione di strazio tremendo e impenetrabile alla speranza se non fosse per la nascita di Prisca, la figlia che il padre ama teneramente e che la madre sembra odiare per troppo amore e desiderio di possesso, la bambina che ricorda la madre per la sua indipendenza e la sua volontà di autonomia assoluta ma che, a differenza di quest’ultima, suscita negli altri (in particolare la nonna Anna e la prozia Maria) sensazioni di profonda tenerezza.
Sarà proprio lei l’anello di congiunzione tra le due vite perdute di Lena (segnata senza pietà dall’abuso subito durante l’adolescenza) e di Lorenzo (innamorato perso di una donna che non sa e forse non può amare senza distruggere quello che crede sia suo per diritto e per volontà).
Il romanzo, infatti, si apre con un assolo di Prisca e si chiude poi con un altro monologo allucinato e delirante, fatto di recriminazioni e di sogni mancati, di nuvole che passano per il cielo azzurro in primavera e che scompaiono durante il loro viaggio verso il sole. Nel frattempo, si dipanano le storie dei due protagonisti, serrate come un thriller straziato e nostalgico d’altri tempi, e dei comprimari delle loro vite: la sorella di Lena, Lucetta, desiderosa di una vita normale e di tranquilli agi borghesi che, alla fine, si troverà con Claudio, il marito fedigrafo e un figlio, Matteo, timido e introverso, incapace di comunicare il suo amore alla cugina Prisca; la madre Anna, forte tenera e generosa e sua sorella Maria, una donna che vive in un suo mondo allucinato e irto di pericoli; Pietro, l’amico di sempre di Lorenzo che ne sposerà la sorella Alessandra (anche se avrebbe voluto avere, invece, l’inafferrabile Lena). I fratelli Sartori che vivono in una grande villa vicino alla casa dove Lena è nata: Andrea, ricco avvocato e poi potente politico DC, che ama Lena di un amore soltanto muto e generoso tanto che la manterrà fino alla morte senza chiederle nulla in cambio ed Emma, sua sorella, manierista e solitaria che insegna a Lena quanto possa essere insidioso e profondo il fascino della letteratura, introducendola ad essa. E ancora tante altre figurine che costellano il romanzo come tracce di un percorso destinato a perdersi nel bosco – come Nico, figlio di contadini ma di belle fattezze virili che desidera il corpo di Prisca e, alla fine, lo prende gettandola in una confusione fisica e mentale da cui non uscirà più.
Il personaggio più riuscito, tuttavia, resta quello di Lena anche perché risulta refrattario ad ogni forma di comprensione definitiva del suo comportamento. Il suo fascino, infatti, risiede più che nella sua insondabile bellezza, proprio in questa sua natura di sfinge senza appello. Così apparirà a Lello, l’uomo abbacinato dal suo corpo che non oserà toccarlo anche quando, subito dopo la guerra, saranno vicini nella jeep americana con cui l’uomo la accompagnerà a Milano dagli zii
«L’uomo cerca di non fissarla troppo a lungo e di concentrarsi sulla madre, ma il suo sguardo è irresistibilmente attratto dalla figura magra e slanciata di Lena, dal vestito di cotone che le fascia il seno abbondante, le caviglie affusolate come mai ne ha viste in vita sua. Dal vero, almeno. Al cinema e sulle riviste che sua moglie trova ogni tanto, sì. E il viso. Il viso di Lena è di una bellezza imbarazzante, perché non riesci a smettere di guardarlo. Gli occhi scuri e le ciglia lunghe, la bocca carnosa, gli zigomi pronunciati. E quei capelli castani, lunghi fino a metà schiena. Ha un modo di fissarti, poi, che è come se tu fossi nudo. Inutilmente. Lena, in piedi, stretta nel suo abito della festa bianco a fiorellini blu – che odia quasi quanto la leggera borsa di pelle frusta e scolorita e le scarpe bianche con un buco rattoppato sotto la suola – si sposta una ciocca di capelli dal viso. Levetta vede la faccia di Lello diventare paonazza. “Grazie per il favore”, dice Anna spezzando la tensione. “Niente niente. Tanto a Milano ci devo andare…”»[2].
L’effetto che Lena fa sugli uomini è sconvolgente e li porta a cedere a tutte le sue richieste, non opponendo ad esse mai nessun rifiuto (lo stesso farà Lorenzo e poi l’avvocato Sartori).
La sua prorompente bellezza si accoppia alla sua volontà di dominio e di possesso (quella che, verso la fine del romanzo, eserciterà sulla figlia, tenendola bloccata a casa per moltissimi anni e usando per immobilizzarla dei potenti sonniferi – in ciò simile a molti personaggi romanzeschi poi passati sullo schermo come, ad esempio, l’ossessivo e possessivo protagonista di Il collezionista, il primo romanzo di John Fowles, poi diventato un film per la regia di di William Wyler[3]).
Sembrerebbe quasi che il romanzo, nel momento in cui esce dalla sua dimensione di racconto compiutamente legato a vicende inquadrabili nell’alveo della Storia e, quindi, controllabili come forme del passato comune ai suoi personaggi, prenda poi una direzione assai più inquietante e si avvii verso reami ben più misteriosi e incontrollabili.
Come in un romanzo di Stephen King (un autore caro alla Garlaschelli autrice di romanzi noir – non a caso con Sorelle ha vinto il Premio Scerbanenco nel 2004), il punto di partenza è realistico e controllabile con gli strumenti di misura del sapere umano, storico e sociologico, ma poi la narrazione si indirizza verso quelle profondità soggettive da cui è difficile uscire senza l’aiuto di qualcosa che va al di là di esse proprio perché, attingendole, alla fin fine, si sprofonda nel mistero.
La vita e le scelte di Lena, allora, restano un mistero e la sua morte non aiuterà nessuno, neppure la figlia Prisca, a riuscire a comprenderle.
NOTE
[1] B. GARLASCHELLI, Non ti voglio vicino, Milano, Frassinelli, 2010, pp. 20-21.
[2] B. GARLASCHELLI, Non ti voglio vicino cit. , p. 133.
[3] Cfr. J. FOWLES, Il collezionista, trad. it. di V. Abrate, Milano, Rizzoli, 1964 e il film omonimo di William Wyler del 1965, sceneggiato da John Kohn, Stanley Mann e Terry Southern (bon accreditato). con Terence Stamp e Samantha Eggar.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)