Il segreto mortale dei sentimenti. Francesca Petrizzo, Il rovescio del buio, Milano, Frassinelli, 2011
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di Giuseppe Panella
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Il secondo romanzo di Francesca Petrizzo, a differenza del precedente racconto “storico” Memorie di una cagna (Milano, Sperling & Kupfer, 2010) dedicata alla rivalutazione di Elena di Troia, è una lunga narrazione (dolorosa, angosciata, tormentata con radi e rari sprazzi di felicità) di quella che si può definire di “formazione dell’anima”. La protagonista ne esce, alla fine, completamente sconvolta ma apprende una dura lezione sulla vita, sulla sua fragilità, sulla sua impossibile realtà.
Le sue vicende sono quelle quotidiane di una studentessa alla soglia dell’esame di maturità ma quello che deve superare è qualcosa che va molto al di là di esso: deve confrontarsi compiutamente con la morte e con l’esistenza come un lungo tunnel da attraversare. Percorso buio e pieno di sofferenza ma, in conclusione, necessitato dalla prepotenza della vita e della sue svolte repentine e piene di amare sorprese. La protagonista del romanzo, Marta Deangelis, infatti, non dovrebbe avere altri problemi che quelli relativi alla scuola e ai suoi sentimenti (fino ad allora piuttosto confusi) riguardo all’amore futuro e ai possibili rapporti di coppia.
Ma la nascita di una storia d’amore, intrisa di tenerezza, di seduzione e di sensualità con Stefano, uno dei ragazzi più belli della sua classe, non basterà ad attenuare il dolore lancinante dell’evento che ha sconvolto la sua famiglia: la notizia che il fratello Marco soffre di leucemia e non sarà in grado di sopravvivere alla sua gravissima malattia.
Il romanzo parte là dove potrebbe conoscere soltanto la sua fine, da una conclusione imprevedibile le cui ragioni si comprenderanno bene nel susseguirsi delle fasi della narrazione ma che appaiono avvolte dall’alone del mistero che circonda sempre la morte.
L’inizio della storia, invece, appartiene al regno del quotidiano: il mattino, la colazione a casa, i compiti in classe, le chiacchiere e le confidenze con la amiche.
“Cammino. Il tascapane sulla spalla è un peso scontato, il gelo di questo mattino mi artiglia le gambe attraverso i jeans. Novembre, è un mese perduto: l’estate alle spalle un ricordo svanito, il Natale davanti ancora troppo lontano. Un limbo dove sostare finché l’inverno non scenda davvero, finché la neve non baci le montagne e sciolga la nebbia nel suo biancore assoluto. Non ci sono montagne questa mattina; solo il tappeto di cotone che le avvolge intere. La scuola emerge dal nulla, una fortezza indifesa dai cancelli ostinatamente chiusi. La sua forma bizzarra è camuffata dalla nebbia, la placca con la scritta Liceo Classico appannata dalla brina. L’unica certificazione della sua esistenza è la mandria di ragazzi in attesa che le porte si aprano” (p. 6).
La prospettiva surreale su cui il percorso di vita di Marta si apre è lo specchio – deformato e sconvolto – di quello che la sua esistenza è diventata da quando il fratello si è ammalato.
Il padre e la madre vivono ormai separati: uno, primario ospedaliero di oncologia, è rimasto a prendersi cura del figlio malato, l’altra si occupa della figlia ma continua a recarsi regolarmente, insieme a lei, a trovarli in un appartamento che, in passato, veniva definito “di rappresentanza” dal padre. L’atmosfera è pesante e angosciosa: la morte sembra sempre presente e subdola, anche nei rapporti più familiari, nelle scene più quotidiane, nella dimensione dell’intimità tra marito e moglie, tra fratello e sorella. Eppure, Marta non sembra voler cedere al dolore anche se il senso di colpa spesso la attanaglia. Un sabato notte, dopo un pomeriggio con le amiche a vedere un film banalotto, incontra un suo compagno di scuola che la saluta per cognome (come una volta usava fare a scuola), che è visibilmente ubriaco, incapace di tornarsene a casa senza la guida di qualcuno: è Stefano Falcone, un volto e un nome che le si erano impressi nella mente fin dal primo giorno di scuola.
Il giorno dopo, è domenica: un giorno impastato di noia e di attesa vana e di desiderio soffocato:
“Il pomeriggio ci si stende davanti, un tappeto troppo spesso, troppo ampio. Tirare il pranzo per le lunghe non serve; e la lavastoviglie fa le fusa mentre ci troviamo in salotto, la televisione spenta, libri e quaderni sparsi sul basso tavolino di cristallo. Fuori dalla finestra le nuvole si sono incontrate in banchi neri, larghe lenzuola che annunciano pioggia; e l’unico suono è quello di un merlo smarrito, sulla terrazza al di là della portafinestra. Un plaid grigio sulle spalle mi illude che ci si possa in qualche modo proteggere contro questa tempesta. E mentre mamma apre un tascabile un tascabile di Nicholas Sparks – lacrime prêt-a-porter il miglior rimedio contro l’angoscia – mi aggrappo a un manuale di filosofia come a una guida che mi porti fuori da questo labirinto. Mostrandomi un ordine del mondo, ammesso poi che un ordine esista. Uomini morti tentano di insegnarmi a pensare, saggezza inutile conservata in torri d’avorio troppo alte per poterle scalare: i miei pensieri accendono fuochi, evocano mostri che oggi, almeno oggi, avrei ferito non affrontare” (p. 58).
Ma la vita è qualcosa di concreto che non si può più evitare e che imporrà, anche se per poco, i suoi diritti. L’amore è da sempre il miglior esorcismo della morte e la forma più naturale per dimenticarla. Così durante le cinque ore trascorse nel mercatino di Natale di quell’anno cruciale, Stefano fa capire alla ragazza che nutre per lei un sentimento vero che non è un semplice gioco di seduzione adolescenziale. Dopo aver rifiutato un Capodanno a Roma con il suo ragazzo in nome della necessità di trascorrerlo con i genitori e il fratello ammalato, Marta si rende conto che quello di Stefano non è soltanto un capriccio. Un pomeriggio trascorso insieme tutti e tre, frutto di una intuizione del fratello e passato nella visita a una sontuosa mostra di Magritte, sancirà questa consapevolezza. In una fredda notte di Capodanno, dopo il cenone consumato in famiglia, Marta uscirà con Stefano in moto e in una cava poco lontano dal centro abitato trascorrerà con lui una lunga notte d’amore. Eppure, l’atmosfera idilliaca della love story si dissiperà ben presto.
Non solo un luminare venuto da Zurigo confermerà l’infausta diagnosi di morte precoce (tre mesi – che scandiscono la campana a morte per Marco) ma Stefano, ubriaco di vodka, si lascerà sfuggire dei particolari intimi sull’unica notte d’amore che i due giovani hanno trascorso insieme.
Di conseguenza, sopravverrà la rottura e Marta, travolta dai sensi di colpa per il dolore prodotto dalla notizia della prossima scomparsa del fratello, abbandonerà Stefano al suo destino.
L’epilogo sarà fatale e il ragazzo si procurerà l’oblio che cerca, gettandosi con la motocicletta in quella stessa cava in cui aveva fatto l’amore la prima volta con la sua ragazza.
La morte dunque si conquista, spietatamente, ferocemente, inequivocabilmente, il proprio “dominio” sull’amore (nonostante la splendida epigrafe da Dylan Thomas che apre il romanzo).
La supremazia della fine sull’inizio e sulla continuità della specie verrà atrocemente ribadita, nonostante tutto, e il rovescio del buio non sarà altro che il buio stesso, la “nera schiena” (felice intuizione lessicale dell’attrice mediata da Shakespeare) prevarrà sui rosei boccioli del seno da cui scaturisce florido il frutto dell’amore.
Il finale è soffuso di una melanconia non priva di un soffice alone di pianto, sotto il segno di Auden che scrive per la morte prematura del “suo” Chester Kallman:
“La professoressa d’inglese è un lutto rosso sotto i suoi capelli biondi, aureola assurda di angelo fuori posto mentre si siede senza guardarci, come se sapesse che cosa troverebbe in fondo ai nostri occhi, in fondo ai miei fissi sulle sue mani piccole, mentre cerco di capire cosa fare nella mia testa ovattata dove i miei draghi sono stupiti davanti alla fine di un mondo svanito senza avvisare. Le mani piccole della professoressa che aprono un foglio, e lei comincia a leggere, con accento perfetto, le parole di un poeta che non saprà mai la curva del collo, l’inflessione della voce di Stefano che non esiste più, perché la morte sarà dappertutto e per sempre la stessa dea. E gli stessi draghi divoreranno coloro che rimangono nella sua scia. Stop all the clocks… Fermate gli orologi, tagliate i telefoni. Mettete la sordina ai pianoforte e spegnete le stele. Non servono più a nulla, ora. Era il mio Nord e il mio Sud, il mio lavoro e il mio riposo. La mia cura, il mio veleno. Ora è morto, e io che avevo creduto di aver firmato un patto con la morte la guardo in faccia. E il suo sorriso è lo stesso, e la mia vita che non ho saputo difendere la tiene per mano” (p. 211).
Lo stile della Petrizzo si conferma, in questo modo, cauto e avvolgente, morbido e ricco di sfumature, sostanziato di accensioni di senso e di sentimenti, alla costante ricerca di una verità che solo la vita a venire potrà dare. Per ora, forse ancora per poco, Death shall have a total Dominion.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)