Tracce del passato nell’ incertezza del presente. Letizia Lanza, Tracce, Pianteda (Sondrio), Edizioni CFR – Poiein, 2011
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di Giuseppe Panella
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E’ un esile mannello di liriche brevi quello consegnato da Letizia Lanza al titolo assai significativo di Tracce, quasi a significarne il carattere minimale e purtuttavia emblematicamente inciso nella polvere sollevata dal Tempo. Riprendendo il titolo di una precedente raccolta dell’autrice, Poesie soffocate del 2005 e la loro auto-definizione, sofferta ma sicuramente anche ironicamente consolidata, di “balbettii”, Gianmario Lucini, il prefatore-editore di questa nuova raccolta, scrive con un certo piglio (e con autorevole competenza e conoscenza dell’argomento da lui trattato):
“Anche l’espressione sembra essere più sicura, più consapevole del suo movimento, del luogo verso il quale vuole procedere. Il “balbettio” sembra rendersi consapevole, si articola, tenta, sempre rimanendo fedele alla sua antica ispirazione, che è così connaturata con la formazione culturale della nostra autrice. Ma anche l’ispirazione sembra portarci, caparbiamente, al mondo fantastico dell’antichità, le stesse immagini, le figure di misteriosi personaggi come la fanciulla “ittiocaudata”, espressioni poetiche che riportano alla cultura classica, come “marmoree membra”, “virgineo incanto” e persino una “falcea luna” che sembra messa lì come dea mediatrice tra il passato e il presente“ (p. 6).
Se l’ispirazione poetica di Letizia Lanza resta legata alla sua formazione di antichista e di archeologa, la sua poesia, tuttavia, non ha nulla del classicismo sotto formalina che contraddistingue i cultori del genere ma si muove, pericolosamente e con un certo qual fascino dell’avventura, lungo i binari di una ricerca che la porta a sondare se stessa attraverso il recupero del mito e del suo sogno di eternità assoluta. Le figure mitologiche che compaiono con prepotenza nella sua scrittura non sono, quindi, soltanto il calco di un passato che affannosamente si cerca di far riemergere per farlo ritornare ma sono l’effettivo venir fuori dalla terra del passato di qualcosa che si è, però, sedimentato all’interno di sé. Prova ne sono i lacerti (o le disiecta membra) di verso che bucano il tessuto uniforme della pagina e si rivelano come il residuato di una lunga macerazione nel tempo :
“Bisbigli. Rabbercio parole, / accatto suoni – / oziosi brandelli. // Scampolerìe lise spente – a intreccio di trame / pauloaracniche. // Sagitta la ricerca – / e svaga e sbircia / crinali chiari. // Si arrende poi – / pulsione (s)finita” (p. 28).
La tecnica di redazione di questo testo è palesemente basata su una logica di voluta frammentarietà linguistica. A termini discorsivi di carattere tecnico (come scampolerie, riferito al recupero di stoffe e tessuti altrimenti destinati alla distruzione) si accompagnano a parole dal suono culto e arcaizzante (sagitta, pauloaracniche), in realtà neologismi o pastiche linguistici della stessa autrice.
In questa ricerca di elementi lirici che si sfrangiano contro il muro del senso, cercando di farsi strada attraverso di esso e provocando continui cortocircuiti tra lessico aulico e parole del quotidiano, il punto d’approdo vorrebbero essere i “crinali chiari” che conducono ad una trasparenza di significato. Ma tutto poi si traduce in tracce, di bisbigli, in balbettii, in parole smozzicate e frante, in frantumi di convinzioni che rimangono a livello di intensità senza concretizzarsi compiutamente. La scrittura sintetizza questo slancio che si arresta alla frontiera del significato e, di conseguenza, ha bisogno del significante per tradursi in parola lirica. L’obiettivo sembra quello di riuscire a definire e a cogliere una serie di elementi capaci di rappresentare ciò cui si vorrebbe giungere e a cui si aspira, partendo da un reperto individuato (spesso a fatica) nel mare magnum della lingua per tentare di ricostituire, nella sua forma compiuta, un intero che sia, in quanto tale, armonioso e nativo. L’approdo è, significativamente, a sua volta un nuovo punto di ricerca per cui le diverse percorrenze si intrecciano e si intersecano, conducendo verso un orizzonte che aspira alla verità dell’eterno ma lo coglie solo per accenni e per agganci, attraverso esili “varchi di pensiero”. E’ quello che emerge dalla lirica Gloria, ad esempio dove, per l’appunto, accade che ci si trova di fronte a:
“Varchi di pensiero – / esili stelle – / a barattare / atomi di eterno. // Parvula – / antropica / mens” (p. 40).
In quei “varchi”, in quella esilità si nasconde il segreto rivelato che può condurre all’eterno. Ma la mente degli uomini si arresta sempre di fronte alla soglia del mistero e non sa sondarne la profondità, rinunciando, nella maggior parte dei casi, a coglierlo.
Quello che rimane, allora, sono le sue tracce timide e acerbe, residui di un passato ben più felice e aspirazioni a un futuro possibile in cui ritrovarsi fuori dalla “desertica zolla” (Valle della Morte) del presente. Per questo motivo, esse, pur non portando in nessun luogo definito con precisione e pur interrompendo il viaggio ogni volta che sembra stia per acquietarsi in qualche risoluzione o in qualche certezza, sono l’elemento più significativo del tragitto percorso o da percorrere:
“Illusione. Velo dipinto / – chimera di vita – / non fende brumore / d’abisso. // Era un sogno in attesa – / ombra infinita del / vero” (p. 17).
Il “velo dipinto” ricopre la superficie dell’universo delle tracce finora ritrovate e percorse; la sua verità è solo un’ombra che trascolora nel momento in cui si cerca di afferrarla e di comprenderla, eppure in esso consiste per ora la natura del sogno vissuto in attesa di andare oltre di esso.
L’”abisso” sottostante è rimasto finora ignoto e imprevedibile e solo la costanza del cammino permette ancora di continuare a cercarne il fondo oscuro. Lo strumento più sicuro in questo percorso resta la poesia : un timone fatto di parole e di segni, capace di guidare la nave vita e di permetterle di avventurarsi laddove non si è mai andati ancora.
Le “tracce” che guidano in questo tragitto per le strade sconosciute che conducono a una qualche forma di verità che non sia più logora e consunta sono costituite della stessa sostanza del verso : impalpabili, spesso labili o inconsistente o difficili da sequenze nelle ardue peripezie dell’esistenza ma resistenti, alla fine, e robuste come il filo rosso che condusse Teseo e Arianna nelle stanze riposte del Minotauro. L’apparente debolezza della poesia è soltanto la prova della sua capacità di resistere al tempo e all’usura che esso produce inevitabilmente. La sua fragilità si sostiene sulla realtà della sua forza, quella stessa che sfida il tempo per raggiungere la volta stellata del Mito.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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