Tutto il dolore del mondo. Lucetta Frisa, Sonetti dolenti e balordi e altre poesie, prefazione di Francesco Marotta, Piateda (Sondrio), CFR Edizioni, 2013
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di Giuseppe Panella
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Scrive Francesco Marotta nella sua Prefazione al nuovo libro di Lucetta Frisa, in un testo intenso e ispirato, pieno di suggestioni e soprattutto arricchito da un bell’omaggio a Edmond Jabès:
“Il poeta sa che il suo canto, parto ed erede della dicibilità del mondo e della progressione razionale della voce tra le maglie di un universo che si rende decifrabile solo nella persistenza inclusiva e univoca dell’ordine e della luce, ha bisogno di sguardi altri (“occhi di un’ altra specie”) ai quali sorreggersi e dai quali lasciarsi guidare in questa catabasi fino alla dimora abissale del principio: altri occhi che parlino, attraverso lo stupore ammutolito dei suoi, la lingua umbratile delle origini, il verbo oltraggioso e inafferrabile di un panteismo apocrifo e pagano, l’alfabeto ferito e sanguinante di chi ha lungamente sperimentato il dolore, la follia, l’esclusione, l’inesistenza, la morte pur di aprire una breccia, con lo stilo, la passione e il furore del suo “grido inascoltato”, nel “silenzio di dio”. Il dolore e il lutto cercano i suoi occhi e la sua bocca, finalmente liberi dalle catene di una luce che esclude il suo rovescio simmetrico, per farsi specchio e visione, per seminare nella nudità del giorno il loro carico di spine e di memorie, la loro sete inappagata di riconciliazione“ (p. 7).
Si tratta, per Marotta, di collocare la poesia in uno spazio bianco (the blankest of the blank spaces – come dirà Marlow a proposito del fiume Congo e delle vicende da lui vissute lungo di esso nel romanzo di Conrad citato più sotto). Uno spazio bianco, tuttavia, capace di dare voce al dolore e al lutto, uscendo dal silenzio che li avvolgono e li congelano, impedendo loro di essere ascoltati adeguatamente. La “passione dell’origine” (che gli deriva proprio da Jabès) permette a Marotta di coniugare la poesia di Lucetta Frisa alla sua ricerca dolorosa di una epifania suprema che è quella della “nudità” come esposizione assoluta dell’anima. Resta, tuttavia, un problema da esaminare.
Perché questi sonetti sono definiti “dolenti” e soprattutto “balordi”? Il primo aggettivo è legato – come si vedrà – alla presenza in essi di testi che si rifanno all’idea del canto come esorcismo oppure semplice descrizione dell’orrore del mondo. L’accenno a Heart of Darkness di Joseph Conrad con il suo celeberrimo finale (The horror ! the horror ! pronunciato da Kurtz, il personaggio principale del racconto, mentre è ormai morente) può essere considerato assai significativo a questo riguardo, quale specimen desolato e sconvolgente del destino dell’umanità presente:
“Orrore le ultime parole di Kurtz / dopo di lui ancora orrore e orrore / quanto pesa il nero che s’accumula / su altro nero o lo strato sembra uguale? / E’ morta la mia eternità dice Vallejo / ed io qui sto vegliandola. L’eternità / sta nel vino, coppiere, a me versane / l’ultima goccia – risponde Hàfez dal buio. / Amiche tanto vicine queste voci / basta toccare certi punti dell’aria / e giungono a bisbigliarci all’orecchio / un solidale dolore sgomento / che un po’ consola mentre sprofonda / il loro brusio nel grande Suono” (p. 49).
L’orrore e la morte per Conrad / Kurtz così come la vigilia della fine per il grande poeta peruviano oppure la messa in mora del piacere che sta per finire per il bardo persiano del vino e della pienezza del vivere sono tutte facce della stessa medaglia: il dolore si vince soltanto riuscendo a trovare momenti di solidarietà con chi ci assomiglia e viene a trovarsi nella nostra stessa situazione. Il “solidale” dolore attenua l’assolutezza del dolore subito e riesce a isolare le voci “amiche” più vicine, quelle che sono in grado di rendere meno duro e meno angoscioso il grande boato della morte, la sua irrevocabile potenza di tuono che prelude alla fine. Se la conclusione sarà l’orrore vissuto e la darkness del suo progredire, solo la dimensione amicale della poesia vissuta come compartecipazione dei dolenti e dei sofferenti permette almeno di fermarne la marcia implacabile.
Ma in che cosa consiste la natura “balorda” dei sonetti che succedono a quelli “dolenti”?
La loro “stranezza”, la loro “balordaggine” consiste probabilmente nella loro assoluta inattualità in un’epoca in cui tutto riluce e niente conduce a conclusione di un processo di conoscenza.
Ma tale tragitto (o “viaggio oracolare” – come viene definito da Marotta) non conduce dall’interno all’esterno (come tradizionale accade e viene teorizzato nelle esperienze iniziatiche) ma tutto all’opposto. E’ una forma di perdita di identità messa in atto per conquistarne una migliore.
Si tratta di uscire da sé, conferma la poetessa, si tratta di ritrovarsi in modo tale da riuscire a perdersi. A p. 41, questa proposta di utilizzazione della poesia a fini ermeneutico-esistenziali è espressa con risolutezza quanto con accorata fermezza. Il testo è preceduto da una citazione da una lauda di Jacopone da Todi:
“Bisogna uscire da sé consegnare / i nervi e i pensieri al nulla che non / ha corpo e non soffre. Subire le offese / farsi strappare abiti e voce e allo specchio / ridere dell’estremo lusso di sé / pensando finalmente sono arrivato / a fine viaggio e sono folle vuoto / di voi e di me, questo è il Paradiso / l’Eden il Nirvana di questa terra / e non ce n’è un altro, un altro di me / non nascerà sono irripetibile / non siamo non saremo più, solo / atomi allo sbando cani sciolti / nell’aria, selvaggi, alleggeriti” (p. 41).
L’”estremo lusso di sé” è il punto d’arrivo, non di partenza; è fatto della consistenza del vuoto e allude al nulla da cui emerge. Essere è l’unica condizione che permette e, senza di essa, non ha senso. Abbracciare il Nulla significa, paradossalmente, attingere una conoscenza suprema che è quella, “folle” (balorda?) della propria unicità e inderogabilità. La poesia come unicum della parola sancisce questa consapevolezza e la espande con la leggerezza di una scelta di vita libera, composta di momenti “selvaggi” e sciolti da ogni necessità e dovere.
Le poesie che concludono il volume, inoltre, accentuano il carattere di “straniamento soggettivo” della scrittura che li caratterizza. Questo accade, probabilmente, per la loro disposizione sulla pagina (oltre che, ovviamente, per l’assemblaggio dei temi) e la connessione dis-organica della loro prospettiva l’uno rispetto all’altro. Non si tratta tanto di incoerenza, ovviamente, quanto della capacità di disporre trasversalmente il contenuto dell’opera in modo che la novità della sua forma spicchi maggiormente e colpisca l’occhio del lettore prima della sua mente.
Ricondotte alla loro originarietà sapienziale, le affermazioni che si riscontrano nel testo risultano spiazzanti anche per la loro posizione tipografica.
Esaminandone alcuni, sarà possibile chiarire ulteriormente la poetica dispiegata dall’autrice in questa sua opera esemplare. Si prenda, ad esempio, questo testo molto breve ma sicuramente significativo della sua progettualità lirica:
“un enigma per me / camminare in superficie” (p. 56).
La poesia non è pura espressione di significanti – sembra allude liricamente Lucetta Frisa – ma è sprofondarsi nel significato nelle parole che lo esprimono. La superficie, fatta di riflessi sgomenti e di torsioni strane, di vertigini e di allusioni, di incomprensibili segmenti di vita vissuta ma non compresa completamente, risulta pericolosamente incerta e inceppata dal dubbio e dall’angoscia. Ma è nella profondità della sua interiore umanità che si annida il segreto rivelato del sogno e dell’attesa di una risposta che non sia quella, torbidamente incerta, di una luce abbagliante che, tuttavia, non si fa comprensione del mondo ma solo sua colpevole cancellazione. Se della realtà delle cose rimarranno soltanto “case ossa cenere / parole vacue / testimoni” (come si legge nella poesia successiva), della loro esistenza non potremo che condolerci con noi stessi perché non siamo stati in grado di trovare una “nostra verità” in noi stessi.
Anche questo testo lirico, situato poco successivamente nell’ultima serie delle “altre poesie” (che non appartengono più a quella dei sonetti ma sono svincolati dalla loro forma chiusa e, di conseguenza, più plasmabili soggettivamente), presenta eguali caratteri di esemplarità riguardo la ricerca di quella possibilità espressiva in profondità di cui si diceva e che vorrebbe rappresentarsi come evento capace di liberare e di integrare il Sé rispetto alle angosce e alle contraddizioni del presente:
“ Volevo l’estasi / il perpetuo orgasmo tra terra e parole / volevo / il corpo emotivo della bellezza. // Nell’aldilà / troverò piume e sete / sentirò volare i miei capelli / dolcemente snodati / dalle ariose dita di un dio primaverile” (p. 67).
E’ proprio di questa ricerca (sempre in-finita e forse impossibile ma sempre stupefatta e ammirevole) che si sostanzia la poesia di Lucetta Frisa.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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