La vita, i ricordi, il dolore che è stato dimenticato. Ivano Porpora, La conservazione metodica del dolore, Torino, Einaudi, 2012
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di Giuseppe Panella
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Il primo romanzo di Ivano Porpora, noto blogger ed esperto di tecniche di comunicazione su Internet, rappresenta un tentativo molto ambizioso di collegare analisi della visione del mondo attraverso la fotografia e tecnica di recupero del ricordo, rappresentazione grafica del passato e storia personale (con evidenti quanto volutamente sfumati agganci probabilmente autobiografici). E’ la storia di una vita che passa attraverso le dieci fotografie senza titolo che dovrebbero andare a formare il mosaico di una mostra dal titolo emblematico di Omissis e di cui il protagonista, Benito Allegri, non ricorda più le occasioni, le motivazioni, gli spunti da cui sono nate.
Titolare di uno studio fotografico in cui lavorano l’amico Mario e l’ex-fidanzata Donata, la sua grande (e forse ultima) occasione di affermazione pubblica è l’esibizione che dovrebbe tenere alla Fondazione Forma per la Fotografia di Milano, un luogo mitico per gli appassionati di questo tipo di produzione artistica. Ma la sua memoria si rivela sempre fallace: è dal 1979 che praticamente non riesce a ricordare più nulla, complici soprattutto le frequenti crisi di epilessia di cui soffre.
La necessità di collocare correttamente nel tempo le fotografie scelte per la mostra del Forma e lo stimolo a farlo indotto dalla pressione piuttosto forte che esercita su di lui la moglie Angela lo spingono a rievocare momenti della sua vita apparentemente (e totalmente) rimossi:
«Sono epilettico, e il mio male urla in me come Mangiafuoco disegnato da Mussino – gli stessi occhi sgranati. Credo di poter dire che, fossi stato Mussino, mi sarebbe caduta ogni tanto la boccia della china a coprire interamente il disegno, gocciolare giù dal tavolo a terra. Ha cancellato immagini, la boccia. E sta pure in un sogno, ricorrente come sempre sono stati i miei sogni: io che tuffo la testa in un secchio di china nera, ne escono migliaia di rivoli d’inchiostro, che sono topi, e si diramano nelle trentadue direzioni della rosa dei venti. Non ricordo una discussione da bar, dei miei anni precedenti all’80 e successivi al dicembre del ’69; non ricordo una predica in chiesa, un furto, una piena. Niente dai sei ai sedici anni. Non ricordo l’omicidio Pinelli, né l’omicidio Calabresi ; intendo: non ricordo un giornale che ne parli, un momento di raccoglimento, un “che succederà ora” Ho fotografie di me al mare che volteggio in aria un pallone, mio fratello Achille dice che una volta sono riuscito a fare centonove palleggi con la testa; io di questo non ho memoria»[1].
Tutto quello che è accaduto, simboleggiato dalle dieci foto della mostra presso il Forma, riaffiorerà durante il romanzo e la narrazione contenuta in esso consiste esattamente del ricordo degli eventi che le hanno determinate. Le foto sono criptiche, apparentemente indeterminate, raffigurano particolari che non sembrano dare senso compiuto alla loro rappresentazione: un badile, un prete, delle persone che guardano verso l’alto, un coltello piantato con forza in un ceppo di legno, un cadavere di donna sulla strada, un gruppo blues di provincia, un mucchio di stracci gettato a terra, un nudo di donna, un paio di imbianchini, il ritratto di un uomo…
Sono tutti tentativi, quelli di Benito, di capire che cosa è successo, che cosa è stato occultato dal black-out della sua mente, che cosa è avvenuto di così sconvolgente da impedirgli di ricordare e, di conseguenza, di vivere quello che gli è successo con cognizione di causa. Se ricordare è una dimensione fondamentale della vita, allo stesso modo, è solo rammemorando in maniera più precisa gli eventi del passato e raccontandoli in modo pieno e compiuto con tutti i loro errori e le loro contraddizioni che è possibile riscattare la propria esistenza. Se la vita continua, ciò che non si rammenta rischia di andare perduto una volta per sempre; la memoria degli eventi si pone sullo sfondo come l’orizzonte ineludibile del passato. Ad un suo amico che gli aveva chiesto una volta che cosa gli stava succedendo di così angoscioso, Benito aveva risposto:
«Avrei dovuto dirgli, se l’avesse capito, se l’avessi capito io, ma mi ci sarebbero voluti quasi trent’anni per capirlo, che quando si cade nello scuro si trovano topi e fango, ma anche oro, e falde freatiche, e catacombe. E avrei dovuto dirgli, se l’avessi capito, che il senso di tutto non sta solo nel ritrovamento, ma anche nella capacità e nella possibilità di risalire per raccontare a tutti quello che si è visto, siano topi o catacombe, e che per questo, per capire questo, io sarei dovuto diventare fotografo. E mentre tante parole mi rimbalzavano in testa come palle da biliardo, senza che nessuna mi arrivasse alla coscienza o alla bocca, io gli dissi solo: “Niente, niente”, sperando di capire, o che almeno mi capisse lui»[2].
Per capire, Benito dovrà ripercorrere una quantità di episodi della sua vita, episodi tragici (come il rapporto con il padre e la dolorosissima rottura con lui, consumata fino in fondo e mai ricomposta), episodi ilari o salaci, episodi buffi e pieni di quella follia della vita che caratterizza la realtà della provincia e che sembra connaturata alla vita degli abitanti della Bassa padana (almeno quelli di una volta). Tra tutti, forse quella che particolarmente colpisce per la sua totale assurdità e, contemporaneamente, per la sua verosimiglianza, è l’incontro casuale tra don Binda, il parroco del paese dove Benito è nato, grande appassionato di ciclismo su strada, e un ciclista professionista, Luigi Malabrocca, reso celebre dalla sua accanita tendenza e volontà di rimanere ultimo nella classifica generale del Giro d’Italia, indossandone così la “maglia nera” (in questo modo si guadagnava un premio di consolazione che il penultimo o il terzultimo mai avrebbero ricevuto).
Don Binda avrebbe voluto ardentemente andare a vedere transitare i ciclisti della tappa che sarebbe passata per il paese per incoraggiare Bartali per il quale faceva il tifo (mentre non gli piaceva troppo, anzi proprio per niente, Coppi[3]) ma proprio in quei giorni era morto un ragazzino il cui padre era un vero potente del luogo e al cui funerale in pompa magna non era il caso di soprassedere per via della tappa (anzi, secondo il vescovo, bisognava approfittarne per evitare problemi e celebrare la cerimonia senza dare nell’occhio). Così don Binda fu costretto a rinunciare al suo piano precedente di tifoso e fare il proprio dovere di sacerdote. Una volta terminato il seppellimento del bambino morto, il prete se ne era tornato in canonica dove fu disturbato durante lo spuntino che stava facendo da prepotenti colpi dati a mano piena alla sua porta. Era proprio Malabrocca (all’epoca soprannominato il Cinese) che cercava ospitalità in una casa tranquilla per imboscarsi e guadagnarsi l’agognata maglia di ultimo in classifica. Il sacerdote gli offrì un lauto pasto e lo tenne con sé fino all’ultimo minuto possibile quando ormai il gruppo degli altri ciclisti sarebbe stato per arrivare e il ciclista ritardatario sarebbe giunto per forza nella posizione che voleva. In cambio gli chiese di raccontargli come era Bartali da vicino.
Tutto il romanzo di Porpora è costellato di episodi simili: personaggi stravaganti come Sulfanel che chiedeva un fiammifero per far capire che voleva una sigaretta o sfortunati come il ragazzo Replica (perché simile in tutto al fratello) la cui tragica fine ad opera di uno squilibrato sarà vendicata – con il consenso di tutto il paese – in maniera sanguinosa dal badile di suo padre o donne fin troppo sicure di sé come Rachele che mostrerà orgogliosamente il proprio sesso rigoglioso al piccolo Benito quando il ragazzino andrà a chiedergli se, essendo una lesbica (termine incomprensibile per lui), in realtà non fosse un uomo camuffato da donna.
Si tratta di un mondo che, ovviamente non c’è più (e forse non è mai esistito nei termini in cui qui viene presentato): un “mondo piccolo” (per usare un sottotitolo caro a Giovannino Guareschi) rivisitato con gli occhi della postmodernità dove gli abitanti “lunatici” (questi ultimi, invece, visti con lo sguardo stralunato di Ermanno Cavazzoni) sono tutti costruiti con ciò che rimane del ricordo dell’adolescenza e della prima giovinezza. Frammenti del passato, resi vivi dallo stile fotografico di un autore che riesce a mescolare proficuamente umorismo e tragedia, sofferenza e allegria, il bene e il male (come ha scritto Giulio Mozzi) senza alcun manicheismo o velleitarietà di sorta ma solo facendo leva sulla propria umanità ferita e restaurata da una grande forza di volontà.
NOTE
[1] Ivano Porpora, La conservazione metodica del dolore, Torino, Einaudi, 2012, pp. 9-10. Il lavoro più celebre di Alberto Mussino, citato nel testo a proposito di Mangiafuoco, sono, infatti, le illustrazioni per Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi pubblicate nel 1911 dalla casa editrice Roberto Bemporad e figlio di Firenze (un editore molto noto anche per l’esclusiva che ebbe lungamente sulle opere di Emilio Salgari).
[2] Ivano Porpora, La conservazione metodica del dolore cit. , p. 313.
[3] Sulla storica contrapposizione tra Bartali e Coppi che arroventò le cronache sportive degli anni del dopoguerra, è sempre di proficua lettura il reportage di taglio storico-antropologico scritta da Curzio Malaparte nel 1949 con il titolo di Les Deux visages de l’Italie : Coppi et Bartali per la rivista “Sport Digest” (ristampato nel 2009 da Adelphi di Milano con il titolo Coppi e Bartali e contenente una lunga Nota di Gianni Mura).
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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