Lucido e spietato, sognatore dell’Altro, artefice del Sé. Salvatore Martino, La metamorfosi del buio (poesie 2006-2012), prefazione di Donato di Stasi, Milano, La Vita Felice, 2012
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di Giuseppe Panella
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Salvatore Martino compie nel suo nuovo libro un “viaggio di vita e conoscenza”, un tentativo di andare oltre la pura poeticità della tradizione lirica per sfondarne le esili pareti liristico-biografico e cercare nella “notte oscura” dell’anima la verità di una visione totale.
“La metamorfosi del buio scava l’inferno interiore, la più remota origine dell’essere, l’atra abissalità, con il ritmo insistente dei suoi versi, con il pieno della sua ruvida musicalità, con la sua abilità di saper tessere insieme saperi diversi (il mito e la postmodernità), codici differenti (gergo scientifico e letterarietà), secondo una visione plurima e borgesianamente unitaria dell’enciclopedia fattuale e cosale” – scrive Donato di Stasi nella sua densa Prefazione al volume di poesie di Salvatore Martino che, non certo a caso, reca come titolo il titolo paolino di Videmus nunc per speculum et in aenigmate – e poi aggiunge: “La via d’uscita dalla genericità poetologica viene individuata nella sapiente combinatoria degli stili, nella somma di polarità opposte (distesa narratività e condensata liricità, crudo espressionismo e rastremato canto elegiaco pro natura): Salvatore Martino sa emanciparsi dallo sterile mimetismo del reale, interpretandolo e ricostruendolo su piani differenti, attraversandolo, dissolvendolo per aprirsi la via all’impenetrabile, al buio che va metamorfosato in presenza di una forte istanza di progettazione dell’agire, perché si tratta di spezzare l’incantesimo dell’insignificanza e del caos che inondano con il loro vuoto e spengono la vita”[1]. Si tratta, di conseguenza, di scrittura fatta di una potente irrealizzazione della realtà, dunque, scavo del quotidiano per raggiungere una profondità che lo riscatti e lo consacri contro se stesso.
Ma anche il titolo della prefazione di di Stasi, nonostante il rimando sia apparentemente al pensiero escatologico di San Paolo, richiama e riverbera proprio Borges e precisamente il saggio che l’autore argentino ha dedicato, in tempi non sospetti, a Léon Bloy e alla sua dichiarazione assai inquietante che “la frase di San Paolo : Videmus nunc per spaeculum in aenigmate è come un lucernario dal quale immergersi nell’Abisso vero, che è l’anima dell’uomo. La paurosa immensità degli abissi del firmamento è un’illusione, un riflesso esteriore dei nostri abissi, percepiti ‘in uno specchio’. Dobbiamo invertire i nostri occhi ed esercitare un’astronomia sublime nell’infinito dei nostri cuori, per i quali Dio volle morire… Se vediamo la Via Lattea, è perché esiste veramente nella nostra anima”[2]. Per Bloy (e Borges) si tratta di un assunto fondamentale che ripete nella scrittura la struttura reale (e non solo illusoriamente a noi prossima) del mondo.
La discesa nell’abisso della soggettività è, di conseguenza, caratteristica fondamentale della ripresa poetica di questi versi così intimi e personali e, contemporaneamente, estremi e universalizzabili.
La poesia di Martino è da sempre una lirica di forte musicalità, tale da poter essere letta ad alta voce (come il suo stesso autore giustamente pretende). Ma questo non vuol dire certamente che in esso vi sia un predominio del significante. Niente di più lontano dallo sperimentalismo, infatti, abita i versi spesso volutamente “abissali” (giusta la citazione nietzscheana dell’esergo[3]) e devastati del poeta: nel labirinto della sua scritta si aggrovigliano angoscia e speranza, attesa e prostrazione, illusione e disincanto. Poesia della contraddizione interna e interiorizzata, dunque, e, di conseguenza, poesia dell’Altro da sé che con l’Io interno si scontra e si ritrova in versi scanditi e cesellati dalla lama di rasoio dell’introspezione profonda e di un labor limae attento e raffinatamente spietato.
Emblematica al riguardo ed exemplum intessuto di riflessi lirici e di recuperi stilistici è proprio uno dei testi finali della raccolta:
«I SENTIERI DEL GIARDINO OSCURO. Il giardino sommerso dalle viole / tradisce una speranza / in questi anni di gioiose avventure // Sediamoci al tramonto / in questa profonda solitudine / e il sacro vomitare del silenzio / avrà coniugato il nome / vanamente inseguito / in tutti questi mesi di abbandono // Potrai così riconoscere / la voce che scandisce / lettere e suono / e immaginare un tempo / che possa coincidere / l’inganno con la luce»[4].
A prescindere dalla parafrasi borgesiana del titolo (Il sentiero dei giardini che si biforcano), si tratta di una vera e propria dichiarazione di poetica nel momento in cui si rimanda alla voce poetica come sintesi di forma e contenuto che riesce a conciliare l’esigenza del dettato autoriale con l’espressività dell’enunciazione lirica. La “profonda solitudine” è l’unica “speranza” che oggi resta dopo il silenzio e il grido delle precedenti esperienze evocate.
In Martino, dunque, la ricerca del Nome si profila come la potenzialità assoluta del Verbo espresso e, di conseguenza, Logos e sentimento si fondono in un labirinto che non conosce alcuna via d’uscita (“l’inganno” e “la luce” vengono a coincidere e non c’è via di mezzo che sia diversa dalle parole pronunciate dal poeta).
«SALITA VERSO LA NOTTE OSCURA. Nel solo labirinto che conosci / il filo non trasmette più luce / la lanterna segnala / assenza di pesci nei fondali // Costretto a ricercare / quel numero con sole venti cifre / della tua della mia combinazione / la chiave per disciogliere / la ragione profonda dell’esistere / ho macchiato di larve il mio cammino / costretto la rosa a rinnegare / tutti i suoi colori // In questa deprimente liturgia / ogni iniziazione s’è offuscata / gli dei hanno cessato di parlare / e sei l’unico volto che possiedi»[5].
Le maschere, dunque, sono cadute e il volto nudo si riflette soltanto in se stesso per ritrovarsi privo di orpelli e di colori che potrebbero trasformarne l’aspetto desolato. Eppure è questo il senso profondo della ricerca che è subentrata dopo la fine del giorno e dei suoi allettanti e luminosi segnali di richiamo. Il labirinto può essere attraversato solo se se ne ritrova il filo perduto e la cassaforte del mistero della vita aperta solo a condizione che se ne ritrova la combinazione autentica (ma complessa e fatta di contraddizioni – il numero è “solo” di venti cifre e non è facile ricordarselo dopo che sta calando il tramonto e il sole non illumina più il cammino). Ma la noche oscura del alma non condurrà all’ascesi intramondana e alla salvezza eterna ma solo alla consapevolezza che l’abisso buio dell’esistere non potrà che essere trasformato e rovesciato dalla carica metamorfizzante dell’elemento poetico.
Nell’epitome di un passato visto nella proiezione di un futuro incerto e ancora vacillante che è divenuto il corpo vivente del libro, la parola poetica, comunque, si rivela come la funzione di una struttura portante rispetto alla dimensione accessoria degli episodi che le danno sostanza narrativa. Nella vita descritta in poesia ciò che accade ha poco senso rispetto al come venga messa in versi e nel labirinto di speranza, dolore, angoscia e apertura verso il futuro che costituisce la gran parte del viaggio di Martino tante vicende descritte e rappresentate sono viste come sfondo più che come dimensione protagonistica: quel che conta è ciò che diverrà, fin da subito, materia del canto, rovesciandosi in rigore formale della sua presentazione lirica.
Così nei testi più incandescenti del libro l’ansia per il futuro si mescola a un sentimento straziato di nostalgia mentre in quelli più meditativi la domanda incalzante si fa urgenza di verità che, peraltro, è ritenuta improbabile e impossibile. Così il pensiero poetante di Martino si avvita e si contraddice nel desiderare una risposta che non può arrivare se non dalla poesia stessa e dalla sua metamorfosi di parole in cose e di situazioni in espressività bruciante e cogente.
La poesia nasce da questa contraddizione, allora, e si fa attesa di un cambiamento radicale che avverrà nel tempo nuovo che potrà subentrare quando questo nodo contraddittorio sarà sciolto:
«[…] Forse davvero io sono Nessuno / e dall’isola mai sono partito // Macchiato di cobalto / il cielo indugia verso il viola / il profilo dei monti / già declina il nero / la rada si abbandona / al crollo della luce / alla calma che invade le finestre // In questa sospensione si disperde / il disegno dell’ansia / e l’anima s’invade di silenzio // è forse questa la felicità»[6].
Chi scrive è forse Nessuno ma non certo qui rappresenta (o vuole rappresentare) tutti: il poeta nell’attendere ciò che vorrà venire (la felicità nell’attesa, forse) è solo con se stesso, a contemplare e a descrivere il suo abisso, terribilia meditans.
NOTE
[1] D. di STASI, “Videmus nunc per speculum et in aenigmate”, prefazione a S. MARTINO, Metamorfosi del buio (poesie 2006-2012), Milano, La Vita Felice, 2012, pp. 6-7.
[2] Cfr. J. L. BORGES, “Lo specchio degli enigmi”, in Altre inquisizioni, trad. it. di F. Tentori Montalto, Milano, Feltrinelli, 19732, p. 125. La citazione riportata da Borges è tratta da Le Mendiant ingrat che è del 1894.
[3] Si tratta di un aforisma, il no. 146, tratto da Al di là del bene e del male: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi dal diventare un mostro anch’egli. E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te”.
[4] S. MARTINO, Metamorfosi del buio (poesie 2006-2012) cit. , p. 131.
[5] S. MARTINO, Metamorfosi del buio (poesie 2006-2012) cit. , p. 49.
[6] S. MARTINO, Metamorfosi del buio (poesie 2006-2012) cit. , pp. 147-148.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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