La passione del diverso, la diversità delle passioni umane. Francesco Verso, Livido, Milano, Delos Books, 2013
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di Giuseppe Panella
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Peter Pains è innamorato di una testa da quando ha quindici anni. Il suo è un amore che non sembra potrà avere fine fino a quando tutto l’intero corpo della persona amata non sarà ricostruito e quel capo così accuratamente conservato in un armadio della sua stanza non verrà riattaccato al busto.
Ma si trattava poi di una persona “vera” quella adorata in modo così totale da Peter?
Alba era, in realtà, artificiale, una creatura nexumana – il suo corpo artificiale era stato modellato scientificamente perché durasse per sempre così com’era stato ricostruito dopo aver compiuto la scelta della non-umanità in cambio di un’eternità inalterabile.
Nei suoi confronti si era scatenato l’odio dei membri della banda dei Dead Bones, attirati dalla bellezza della ragazza ed eccitati morbosamente dalla volontà di distruggerla in maniera irreversibile (rivendendo poi lucrosamente alla Reverse, la società di riciclaggio che gestisce i rifiuti della Metropoli, i pezzi ottenuti in questo modo). Il giovane innamorato, invece, è un handicappato che si serve di arti artificiali per riuscire a svolgere il suo mestiere di trashformer all’interno del mondo della palta[1] in cui sembra essersi trasformata la megalopoli in egli cui sopravvive con una certa fatica, alloggiato in una vecchia casa dove abita con sua madre Cleo, ammalata cronica da quando il padre di Peter e di suo fratello Charlie l’ha abbandonata.
Anche la grande città in cui vive il ragazzo è fatiscente e decaduta (tranne alcuni quartieri residenziali destinati ad abitanti molto ricchi). Oltre che Blade Runner (come si è già detto), ricorda molte grandi città post-atomiche della fantascienza anni Settanta-Ottanta, il risultato combinato della follia distruttiva umana e della catastrofe ecologica dovuta alla crisi della civiltà consumistica su cui la cultura occidentale si è basata per tutta la seconda metà del secolo scorso[2].
E’ stato proprio suo fratello a organizzare l’uccisione di Alba e poi a farla a pezzi in modo da dividere le parti da cui era composta tra i membri della banda dei Dead Bones di cui era il capo indiscusso. Una volta accortosi che il fratellino conservava la testa della donna a casa, nell’armadio della sua camera, Charlie gli ordina di distruggerla perché si tratta di un elemento iettatorio conclamato che potrebbe portare alla rovina tutti coloro i quali entrano in contatto con esso.
Per questo motivo, il ragazzo si reca all’obitorio della città per cercare una testa che possa sembrare plausibilmente simile a quella di Alba e vi trova Mike (detto “Muco” per la sua schifosa abitudine di tirare abbondantemente su con il naso) che non solo lo aiuta ma gli rivela che il corpo di Alba non è stato ceduto alla Reverse ma spartito tra i membri della banda sulla base delle proprie preferenze anatomiche riguardo il corpo femminile.
Peter decide di recuperare le diverse parti staccate della nexumana. Supplicherà poi Ion Wharton, un ex-ingegnere della società di recupero di cui era stato tempo prima un funzionario influente e ormai diventato solo un barbone desideroso di vendicarsi della ditta che lo ha prima fatto internare in manicomio e poi licenziato per paura che ne rivelasse i segreti, di aiutarlo a ridarle vita (in questo il ragazzo, forse senza saperlo, si rivela l’ultimo emulo del dottor Frankenstein di Mary Shelley e della sua raccolta di disiecta membra da trasformare in un corpo vitale).
La prima parte del corpo di Alba che il ragazzo recupera sono le braccia e le mani: esse erano rimaste in possesso di Lenny, il più feroce e folle del gruppo, rinchiuso da tempo e reso inoffensivo con una lobotomia nella Villa, l’ospedale psichiatrico della megalopoli.
La caccia alle altre parti mancanti (il busto e il bacino, quelle più ambite dell’eccitante corpo di Alba) sarà l’argomento successivo della ricerca della felicità da parte di Peter.
Ma quella che diventerà l’ossessione fondamentale della sua vita gli riserverà una serie sconvolgente di sorprese e l’occasione di diventare più volte “livido” – come gli accade sempre quando si trova sotto tensione ed è costretto a superare le situazioni più difficili.
Il romanzo di Verso è legato, da un lato, alla tradizione letteraria di genere (i nomi e i titoli fatti precedentemente mi sembrano abbastanza emblematici al riguardo) ma, dall’altro, cerca di inserirsi in essa con una ricerca di autorevolezza di scrittura (e di autovalorizzazione) tutta propria.
Se lo scenario è tipico del contesto di genere e riprende molti temi del connettivismo, la corrente letteraria cui egli appartiene dall’inizio e all’interno della quale ha già pubblicato due romanzi significativi (Antidoti umani e E-Doll [3]) – il degrado urbano, il crepuscolo delle civiltà al declino, la morte come condizione dalla quale si cerca di sfuggire in tutti i modi possibili soprattutto grazie all’ingegneria genetica, il futuro visto in prospettiva quasi immediata, come il contraltare di un presente che gli assomiglia moltissimo, la indifferenziazione dei generi e delle identità sessuali che si mescolano e si confondono spesso indistricabilmente –, il taglio della scrittura è volutamente letterario e mescola citazioni colte e talvolta rare ad espressioni gergali quando non volutamente e spiccatamente corrive, spesso dichiaramene ispirate a un lessico quotidiano da bassifondi.
Ne emerge una dimensione di scrittura intrisa di poeticità diffusa (l’amore senza fine del giovane Peter, non a caso Pains, con il suo trasparente gioco di parole tra pain e Pan) ma anche di violenza forte, cruda ed efferata, in un ambiente socialmente degradato dove la morte e la crudeltà si possono incontrare, con grande facilità, ad ogni angolo della strada e ad ogni svolta del racconto.
I personaggi sono tutti devastati dalla corruzione in atto e dall’incipiente crollo della cultura cui avrebbero potuto appoggiarsi (e da cui sarebbero potuto essere supportati) in altre epoche storiche: la fine della ipertecnologizzata e consumistica civiltà occidentale da cui sono stati generati sembra ormai imminente. Anche il protagonista, legato all’uso delle protesi che gli permettono di muoversi e di spostarsi, è il simbolo vivente di una mancanza evidente di completezza, di una carenza ad essere, dell’impossibilità di esistere in modo del tutto integro in tutte le proprie facoltà vitali che caratterizza il modo di esistenza dell’uomo contemporaneo.
Temi di straordinaria importanza teorica (il simulacro come doppio della forma originaria, la realtà virtuale e la sua estensione a quella “reale”, la ricerca di una nuova vita possibile e non gravata dalle remore e dalle angosce della lotta contemporanea per la sopravvivenza) emergono nel corso del romanzo di Verso ma la loro “pesantezza ontologica” non piega né riduce la scarica adrenalina al fondo della sua scrittura e della tensione narrativa che sorregge il suo romanzo.
Non è un pregio da poco questo: sollevare questioni di frontiera per l’ambito dell’umano per poi risolverle nell’ambito di un romanzo di genere senza farne una sorta di trattato sui “massimi sistemi” (rischio molto spesso corso in questo tipo di narrativa) è forse il merito principale del terzo libro di Francesco Verso, di essere un brillante sondaggio sulle sorti di un futuro umano purtroppo non più troppo lontano dal nostro.
NOTE
[1] Palta è la traduzione italiana per kipple e utilizzata in questi termini (miscuglio, fanghiglia, immondizia indifferenziata) a partire dalla sua prima apparizione ufficiale in Ma gli androidi sognano pecore elettriche ? di Philip K. Dick del 1968 (la prima traduzione italiana di questo ormai celeberrimo romanzo, ma con il titolo di Il cacciatore di androidi, è del 1971 – bisognerà aspettare il 2000 perché il titolo del libro torni ad essere quello originale, dopo essere stato lungamente ribattezzato Blade Runner dopo l’apparizione del film diretto da Ridley Scott nel 1982). Anche il termine nexumano deriva dallo stesso romanzo di Dick : i “replicanti” androidi fuggiti dalle colonie spaziali e “ritirati” dal poliziotto Rick Deckard nel corso della storia perché aspirano a una vita più simile a quella degli esseri umani cui assomigliano completamente sono, infatti, classificati come appartenenti alla classe Nexus-6. Essi erano costituiti da due trilioni di componenti-base e dotati di una scelta entro un campo di dieci milioni di possibili combinazioni di attività cerebrali. In questo risultano a loro volta assai simili ai robot ideati per la prima volta da Karel Čapek nel suo testo teatrale in tre atti R. U. R. (Rossumovi univerzální roboti, I robot universali del professor Rossum), l’opera in cui questo termine viene usato per la prima volta. Su questi temi si può utilmente consultare il mio saggio di sintesi Il sosia, il doppio, il replicante. Teoria e analisi critica di una figura letteraria, Bologna, Elara, 2009.
[2] Eccone la descrizione che ne fa Peter in un momento di riflessione più generale: “Dal portone, contemplo il disfacimento dell’orizzonte, uno strato baltico adiposo. Ogni giorno la parte ricca della megalopoli produce quattro chili di rifiuti a persona. La palta cresce e aggredisce ogni cosa da dentro, dai cassonetti straripanti, dalle fogne e dagli immondezzai sempre più prossimi agli edifici. Spesso capita di incontrarsi al cassonetto e fare amicizia in discarica. […] Ci si conosce e riconosce dai rifiuti gettati via. Quali scatole hai buttato oggi ? Quali abiti hai scelto dal mucchio ? Che viaggi faresti sui depliant ammuffiti ? Non ci si vergogna più come ai tempi di mia madre. Al contrario, questo atteggiamento rientra nella logica della condivisione. Può succedere, quando si capisce di fare parte di un fenomeno che tocca tutti quanti, nexumani esclusi. Questo è il nuovo grasso della Terra : uno strato di energia rivestito di molecole industriali, un ammasso di consumo concentrato in eccessi innaturali. ” (Francesco Verso, Livido, Milano, Delos Books, 2013, p. 141).
[3] Antidoti umani è stato ripubblicato (con una mia Prefazione) nel 2009 dalla casa editrice Diversa Sintonia, legata fin dalla fondazione alla corrente connettivista italiana; E-Doll- Il fabbricante di sorrisi, invece, ha vinto il Premio Urania 2008 ed è uscito nel 2009 come numero 1552 della prestigiosa rivista di Mondadori.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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