Il cammino del cinabro: aspetti poco noti dell’opera di Julius Evola. Alberto Henriet, L’uomo che cavalcava la tigre. Il viaggio esoterico del barone Julius, presentazione di Gianfranco De Turris, Chieti, Solfanelli, 2012
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di Giuseppe Panella
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Su Julius Evola, sulla sua esistenza di “esule in patria”, sulla sua attività artistica e teorico-filosofica, esistono ormai innumerevoli testimonianze[1] e una fitta letteratura di ricostruzione e di recupero delle sue posizioni teoriche ed etico-politiche. Dell’uomo e della sua opera è stato detto e scritto tutto e (praticamente) il contrario di tutto. Ma il denso e contenuto libretto di Alberto Henriet ha il pregio di puntare, finalmente, in direzioni altre rispetto alla polemica politica e all’esaltazione di determinati aspetti di una tradizione culturale cui Evola appartenne certamente (ma con molti distinguo). Henriet si è provato a drammatizzare visivamente la vasta e articolata opera dell’autore di Il cammino del cinabro trasformandola in una serie di quadri vasti e significativi sui quali riuscire a dipingere con le parole le sue affermazioni più provocatorie e le sue proposte teoriche più suggestive, scegliendo per farlo le sue opere più note e più adattabili ai propri fini narrativi.
Come giustamente ha rilevato proprio Gianfranco De Turris nella sua Presentazione che apre il breve testo saggistico-narrativo di Henriet:
«Henriet ha avuto la brillante idea di guidarci come in una visita a una esposizione dei quadri di Julius Evola: ogni quadro suscita nell’autore delle immagini, quasi delle visioni, dove ben presto Evola stesso, in alcuni casi grazie al suo “doppio” Ea (che, come ben si sa, era lo pseudonimo usato in Ur e Krur), diventa diretto protagonista di scene in cui viene trasportato nel suo (di Evola) presente, passato e futuro, una realtà trasfigurata fantasticamente grazie alle avanguardie artistiche che Henriet conosce molto bene e sa amalgamare nei suoi racconti-visioni di poche righe o di diverse pagine, e il cui titolo è spesso proprio quello di un quadro evoliano: l’ambiente romano dell’aristocrazia e dei cabaret dove il Barone era un vero e proprio “personaggio”; le figure di Onofri, Reghini, Parise, Sibilla Aleramo; le musiche di Debussy, Stravinsky, Schönberg ; i quadri di Kandinsky, Carrà, Léger, Picabia, della Secessione viennese: tutto ciò fa da sfondo all’Evola degli anni Venti, la cui figura spesso risalta nei ricordi dei testimoni e, fin quando sono sopravvissuti, dei superstiti di allora» (pp. 6-7).
Nel libro di Henriet sfilano, allora, tutta una serie di situazioni e di figure che rappresentano altrettante tappe della sua vita di artista e di filosofo, di alchimista e di teorico di una cultura esoterica che si colorava di magismo radicale e di politica culturale insieme. Ma quello che sembra affascinare particolarmente lo studioso di Evola è la passione giovanile per le avanguardie che lo animato nel suo esordio sulla scena culturale. In particolare il rapporto animato e controverso con Dada e con il suo padre fondatore Tristan Tzara lo porteranno alla realizzazione di opere pittoriche e di poesie sperimentali che sembrerebbero avere poco o nulla a che fare con la dimensione tradizionalista e anti-moderna che gli viene di solito attribuita in maniera un po’ superficiale rovesciandola in una posizione conservatrice. La “rivolta contro il mondo moderno” di Evola, in realtà, è un rifiuto della sua natura piccolo-borghese e consuetudinaria, in nome di una visione aristocratica della vita che gli permetta di andare oltre l’umano, alla ricerca di quell’Oltre che si è provato ad esprimere nei suoi quadri e nelle sue numerose opere di teoria dell’”individuo assoluto”.
Quello di Henriet, tuttavia, non è – come si è già cercato di dire – un saggio sull’opera del “barone magico”; è un’insieme di variazioni sul tema della sua opera e una pulsante messa in scena (ed en abyme) del suo mondo, in particolare quello fantastico e sovrapposto del suo “doppio” Ea, che viene ricostruito in molti dei suoi aspetti più caratteristici e misteriosi.
Il progetto del libro è quello di tessere una fitta rete di trame e di atmosfere, di suggestioni e di colori arcani, di suoni misteriosi e di evocazioni magiche piuttosto che articolare in maniera precisa e dettagliata il pensiero di Evola.
E’ quello che accade in molti dei brevi capitoli in cui è articolato il testo di Henriet. Si prenda, ad esempio, il fulmineo ritratto di Ea “a cavallo della tigre” sbozzato nell’epifania della Camera magica, uno dei più espressivi contenuti nel libro:
«Ea, a cavallo della tigre, vola nell’aria sottile verso l’Arcobaleno. Il ponte colorato brilla evanescente all’orizzonte. La fiera con gli artigli graffia i colori, e raggiunge la Camera magica che si eleva alla fine delle fasce di luce. Sembra un tempio pagano, situato in una dimensione metastorica. Il barone è tranquillo, distaccato. Nella sua mente, lampi di guerra, ricordi, visioni della Prima Guerra Mondiale. Maschera antigas nero moka con monocolo aureo incorporato, morfina. Il portale bronzeo della camera si spezza con incredibile violenza, schizzando intorno luccicanti frammenti acuminati. Serpente Ea. Verde. Egli entra. Nulla teme. Tutto sfida. Ea. Il serpente. Alchemico. Sette pianeti. Splendenti. Il sole. E’ l’Oro fulgido. La Luna. L’Argento incantato. Ea, il Mago, incede maestoso verso la vetta della Piramide. Vi passa attraverso, incolume. Il tempo fluisce… In piedi, tra le rovine fumanti dell’Europa, al termine della Seconda Guerra Mondiale, si aggira per Vienna. 1945. Una visione di morte. La tigre diventa metallo: la carne si solidifica. La paresi agli arti inferiori. La carrozzella per invalidi… la poltrona… il letto» (p. 47).
In poche frasi è racchiuso il destino del brillante dadaista Evola: in un primo tempo, allievo ufficiale di artiglieria destinato all’altipiano di Asiago dal 1917 al 1918 (era nato a Roma nel 1898), poi artista di ispirazione dadaista (nasce così il suo cosiddetto astrattismo mistico) che culmina con il poemetto La parole obscure du paysage intérieur, poi ancora protagonista della cultura filosofica degli anni Venti con testi sull’idealismo magico che vorrebbero andare oltre l’hegelismo dialettico di Croce e di Gentile sulla scia dell’influenza del pensiero di Nietzsche e, infine, il grande sperimentatore di magia del “Gruppo di Ur” nato nel 1927.
Poi il fascismo, il rapporto controverso con il regime mussoliniano con il quale ha molti punti in comune ma al quale non aderirà mai completamente non iscrivendosi al Partito del quale contesta l’imborghesimento e la perdita dello slancio originario degli esordi rivoluzionari; poi ancora il periodo che viene etichettato come quello dell’Imperialismo pagano (dal titolo di un suo famoso e polemico volume del 1928) fino alla Seconda Guerra Mondiale, la ferita che lo priva della mobilità agli arti inferiori dovuta a una lesione al midollo spinale provocato da uno sbalzo subito durante un bombardamento sovietico. Infine, i processi in patria, le polemiche contro il “mondo moderno” e l’”americanizzazione” dell’Europa tradizionale, la creazione di circoli esoterici ma anche la supervisione di gruppi direttamente politici (i FAR, Fasci di Azione Rivoluzionaria) per cui subirà nel 1951 un processo per riorganizzazione del partito fascista.
Una vita complessa e contraddittoria come si può vedere, un’esistenza che lo accomuna ad altri grandi protagonisti dell’”anarchismo conservatore” del Novecento (da Ernst Jünger a Louis-Ferdinand Céline – anche se fu molto diverso da essi) in uno sforzo titanico e spesso reso inutile dalle circostanze in cui avvenne di rifiutare e confutare le parole-chiave della Modernità trionfante.
Henriet non trincia giudizi, non scrive apologie, non sancisce condanne storiche e umane ma cerca di mostrare attraverso episodi che virano più verso il fantastico che sulla scia della ricerca storiografica la parabola del “barone magico” e del suo desiderio di trovare una Verità attraverso il caos dell’Europa del Novecento.
Se la categoria analitica di “anarchismo conservatore” rischia di sembrare buona per tutte le stagioni e non separare in maniera adeguata il grano dal loglio giustificando l’utilizzazione dell’”arco e la clava” (titolo di un volume di saggi di Evola degli anni tardi, uscito nel 1968, in controtendenza con l’epoca), il pensatore iconoclasta resta ancora una sorta di personaggio che mantiene un alone misterioso non ancora compiutamente rischiarato. Forse l’ipotesi avanzata da Furio Jesi[2] della sua “doppia natura” (un Evola “popolare” e un altro “esoterico”, che scriveva per pochi iniziati di un circolo “magico” capace di comprendere tutte le implicazioni del suo pensiero) è coerente con una delle figure più controverse della cultura italiana del Novecento.
L’Evola di Henriet, in realtà, si situa a metà tra realtà e leggenda, tra mondo fantastico e magico e vicende storiche realmente vissute, collocandolo all’interno di un’epopea fatta di colori e di luci abbaglianti, di fragori e di silenzi misterici che invitano a cercare di saperne di più di quello che è stato il protagonista di un’”Italia segreta” sulla quale è sempre più necessario oggi cercare di far luce non tanto per condannare o giustificare quegli eventi quanto per comprendere le ragioni di quello che è veramente accaduto.
NOTE
[1] Basterà citarne un volume fra tutti: Testimonianze su Evola, a cura di Gianfranco De Turris (Roma, Edizioni Mediterranee, 1973) che contiene riflessioni interessanti di autori (peraltro anche molto lontani dal pensiero del barone di origine siciliana) quali Massimo Cacciari, Marino Freschi, Stefano Zecchi.
[2] Cfr. F. JESI, Cultura di destra, Milano, Garzanti, 1979, in particolare p. 91 e sgg. Ma il discorso andrebbe proseguito proprio sulla base delle conclusioni su cui Jesi è giunto.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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