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I LIBRI DEGLI ALTRI n.87: Storie di padri e figli. Alberto Prunetti, “Amianto. Una storia operaia”

Creato il 07 luglio 2014 da Retroguardia

Alberto Prunetti, AmiantoStorie di padri e figli. Alberto Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Roma, Edizioni Alegre, 2014, pp.192

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di Giuseppe Panella

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Amianto è soprattutto un libro autentico, vero, sofferto, determinato e meditato fino in fondo.

Alberto Prunetti ha voluto costruire un monumento letterario al padre Renato, operaio saldatore-tubista, e alla sua scomparsa prematura per colpa dell’amianto e del profitto capitalistico che lo ha indiscriminatamente usato nelle sue fabbriche di morte ma, nello stesso tempo, ha finito per legarlo alla sua stessa vita e alle vicende che lo hanno condotto a diventare il traduttore e lo scrittore che oggi è diventato. Si tratta di due esistenze legate dal forte vincolo della paternità, certo, ma anche da prospettive di vita e di lotta che sono state, per un certo periodo, comuni a entrambi.

 

Figlio di un proletario, Alberto Prunetti non solo ha accettato con orgoglio la sua situazione sociale (con tutto quello che questo comportava) ma ne ha fatto il punto di partenza della sua produzione di scrittore. Teorico dell’”arte della fuga”[1], in questo suo Amianto ha raccontato, invece, un’esistenza saldamente radicata in un territorio (Follonica, il Grossetano) che ama e che descrive con affetto e con rabbia. Questi due sentimenti, infatti – amore e rabbia – sono equamente distribuiti nel corso del romanzo. Quest’ultimo, infatti, nonostante il suo rigoroso aspetto documentario (con tanto di corredo di foto e di immagini), non può essere definito che tale: un racconto in cui l’immaginazione trasfigura il passato e lo rende terribile e risplendente di nostalgia, in un racconto fatto di lampi descrittivi e di riflessioni ad alta voce con un corredo di annotazioni socio-politiche nette e radicali.

Di Renato viene restituito un “ritratto in piedi” sobrio e pittoresco: un uomo attivo, spesso rude, affettuoso con i figli, appassionato di calcio (soprattutto quello più “vissuto” delle divisioni minori), talvolta coinvolto in risse innocue “tanto per menare le mani” e fare un po’ di moto (sembrerebbe il personaggio di una commedia di Sean O’Casey o di un film “irlandese” di John Ford).

Il suo lavoro, tuttavia, resterà sempre la passione della sua vita: fatto con passione, con fatica, con spirito di sacrificio per procurare da mangiare e da vivere a sé, alla moglie e alla prole, proseguito fino alla fine senza lamentarsene troppo e insieme ai compagni di fatica e di lotta.

Ma quello di Alberto Prunetti non è un santino da realismo socialista del culto di Stachanov, tutt’altro. L’uomo credeva nell’importanza e nell’orgoglio di fare bene il proprio lavoro ma soprattutto si gettava con passione nella vita e in tutte le sue potenziali aspirazioni, consapevole che quello che faceva non sarebbe servito soltanto per sé ma soprattutto per chi lo avrebbe seguito.

La sua figura umana e lavorativa è un esempio di ciò che è stata la classe operaia italiana all’epoca del boom, prima della ristrutturazione selvaggia iniziata begli anni Ottanta e dopo la sconfitta della maggior parte delle rivendicazioni da essa portate avanti con forza e con determinazione vittoriosa tra il 1968 e la metà degli anni Settanta, fino alla promulgazione dello Statuto dei Lavoratori.

Nella sua breve introduzione al romanzo, A fronte alta, malgrado tutto, Valerio Evangelisti scrive:

 

«Seconda nota. Senza volere santificare il suo martirio, è certo che l’orgoglio di Renato Prunetti per ciò che faceva aveva basi concrete, materiali. Saldava, forgiava, ridisegnava i metalli. Ne andava fiero. Anche i suoi momenti di ribellione traevano origine da tale abilità. Si può irridere un simile passato. Pubblicare romanzetti di successo in cui la fabbrica è solo sfiorata [2], richiamata nel titolo e poi ignorata. Ma quel passato implicava fierezza, onorabilità, senso di appartenenza, ribellione ai soprusi. Ciò che oggi si cerca di cancellare con ogni possibile, sporco espediente, perché in quella condizione esistenziale, prima ancora che materiale, risiedeva l’antitesi prima dello sfruttamento. Un operaio con la fronte bassa non è un operaio, ma un involucro funzionale a produrre miseria propria e ricchezza altrui»[3].

 

Renato Prunetti ha mantenuto la fronte alta fino alla fine, senza abbassarsi a chiedere l’elemosina o la pietà di nessuno, accettando ciò che la fabbrica (e la vita) gli offriva micragnosamente ed è morto senza che gli fosse riconosciuto ciò che gli era dovuto. Anche il piccolo aumento della pensione di reversibilità della moglie, concessa dal Tribunale di Firenze, dopo una lunga battaglia a forza di carte bollate e di istanze giudiziarie, suona come una beffa perché vorrebbe risarcire una vita perduta e un “omicidio bianco” con una manciata di euro.

Ma nel romanzo di Prunetti non c’è soltanto la vicenda di morte di un operaio di fabbrica: c’è tutta un’esistenza che si intreccia con quella del suo primo figlio e che procede di pari passo con essa.

Se Renato è rimasto un operaio per tutto il corso della sua vita, anche se aveva provato da giovane l’ebbrezza notturna di un tentativo di evitare di essere rinchiuso tra le mura della fabbrica con un breve esordio come cameriere di night-club – e ne è testimonianza una foto che lo vede ritratto a fianco della giovanissima cantante Nada Malanima[4] al “Cardellino” di Castiglioncello in provincia di Livorno, il figlio è riuscito a sfuggire a questo destino di morte (anche se ha dovuto accettare, per questo, un futuro di precarietà).

Alberto Prunetti, nonostante la sua origine proletaria, ha studiato al Liceo Scientifico di Follonica e poi all’Università di Siena per approdare a una forma assai diffusa di “proletariato cognitivo” e che rappresenta oggi la forma assunta dalla gran parte della forza-lavoro che vive il declino dell’Occidente. Questa conclusione suo padre non poteva certo conoscerla e forse ha sperato che al figlio fosse riservato un destino diverso, dato che “della razza sua era il primo” che aveva “studiato”. Ma la vita di Renato, in trasferta continua tra Follonica, Piombino, Rosignano Solvay, Casale Monferrato, Busalla in Liguria e a Taranto, all’Ilva pugliese, tutti i luoghi dove le morti per tumore da amianto sono questioni tragicamente considerate di ordinaria amministrazione, non è stata soltanto una lunga serie di viaggi su e giù per l’Italia nel tentativo di guadagnare ciò che serviva a vivere per lui e la sua famiglia. Ha assunto spesso caratteri di forte voglia e volontà di vivere, una forza comica e un atteggiamento burbanzoso e ilare nei confronti della realtà che il figlio non manca certamente di mettere in rilievo con una scrittura forte e tesa nello stesso tempo, scavata nella sua brevità epigrammatico-narrativa e capace di rendere con poche battute una situazione, un ricordo, un rimpianto, un sogno. Il padre si rivela una figura a tutto tondo capace di imprimersi nella mente dell’eventuale lettore come si è impressa in quella del figlio che la descrive:

 

«Oèèure gli chiedevo: “Mi racconti di quando hai legato uno al lampione? “, e allora mi raccontava che “ai miei tempi” il sabato sera non ci si drogava (“come i giovani d’oggi”) ma c’era il vino e poi si faceva a cazzotti (“che è una cosa sana”) e “una volta tonfai uno e lo lasciai legato a un lampione” (per scoprire dolorosamente dopo che questo si era sciolto ed era il più piccolo di quattro fratelli incazzati). Bisogna essere un working class hero labronico degli anni sessanta per capire queste cose, direbbe John Lennon se fosse livornese»[5].

 

Questo working class hero sembra uscito da un film di Ken Loach (Piovono pietre o Riff-Raff).

Ma più che un eroe, Renato Prunetti è stato una figura di grande umanità (almeno agli occhi del figlio che gli ha dedicato questo libro di grande pathos).

Un operaio che conosceva bene il suo mestiere, uno spirito libero, un uomo come tanti la cui esistenza è però risultata esemplare (e lo sarebbe stata anche se non fosse morto per amianto).

La narrazione di certe sue gesta, il suo “lessico familiare”, la sua parabola di operaio specializzato che precipita sempre più a livello di un precariato industriale cui viene costretto dalla potenza rovinosa e spietata della ristrutturazione capitalistica ne fanno una sorta di modello narrativo cui tendere in un momento in cui i personaggi forti in letteratura scarseggiano e quelli precari e labili predominano. Anche il romanzo di Prunetti, per questo motivo, rappresenta qualcosa di unico in questo stesso panorama e quindi, proprio per questo motivo, merita una qualche particolare considerazione.

 

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 NOTE

 

[1] Il secondo libro di Prunetti (dopo Potassa, Viterbo, Stampa Alternativa, 2003) si intitola, per l’appunto, L’arte della fuga. Manuale per viaggiatori che non accettano istruzioni (pubblicato sempre a Viterbo, Stampa Alternativa, 2005, con uno scritto di Cesare Battisti) e contiene una serie di ritratti di scrittori che tale “arte” hanno saputo praticare fino a scomparire quasi del tutto nella loro opera (Daniel Defoe, Alexander Trocchi, Jack London, Raoul Vaneigem, Benjamin Perét e, soprattutto, il misterioso Bruno Traven, oggi ingiustamente dimenticato).

[2] Probabile allusione al best-seller di Silvia Avallone del 2010 intitolato Acciaio ed emblematicamente ambientato nella realtà metallurgica piombinese e che, evidentemente, non è sembrato adeguato ad Evangelisti nella sua ricostruzione della cultura operaia di fabbrica.

 

[3] V. EVANGELISTI, A fronte alta, malgrado tutto, introduzione ad A. PRUNETTI, Amianto. Una storia operaia, Milano, Agenzia X, 2012, p. 7.

[4] In omaggio al passato di cameriere di night del padre e a Nada, tutti i capitoli del libro recano come titolo quello di una sua canzone o di una del “maledetto” livornese Piero Ciampi, altra figura leggendaria degli anni Sessanta-Settanta ormai entrata nella leggenda.

[5] A. PRUNETTI, Amianto. Una storia operaia cit. , pp. 106-107.

 

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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)

 

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