Il palio dei buffi. Ugo Cornia, Il Professionale, Milano, Feltrinelli, 2012
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di Giuseppe Panella
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Cornia non si smentisce: anche Il Professionale (che reca come sottotitolo Avventure scolastiche) è un “palio dei buffi” (per riprendere il titolo di una celebre raccolta di racconti di Aldo Palazzeschi).
Il protagonista (che scrive in prima persona e che potrebbe essere – anche se poi non lo è – lo stesso autore) nel 2001 si licenzia dalla scuola dove insegna perché non ce la fa più ad alzarsi presto, percorrere chilometri su chilometri in automobile per andare a insegnare ancora semiaddormentato e stanco dopo aver fatto tardi la sera e, inoltre, non ha tanto bisogno di guadagnarsi da vivere avendo a disposizione un po’ di milioni delle vecchie lire guadagnati con i diritti d’autore e con tre premi letterari. I mesi successivi al suo licenziamento volontario saranno di grande incertezza: nonostante sia scappato dalla scuola che gli sembrava una gigantesca trappola in cui era caduto quando si era iscritto e aveva iniziato a frequentare la Facoltà di Filosofia con lo scopo precipuo di insegnare (e lo aveva anche dichiarato a chi glielo aveva chiesto), della libertà che ne aveva ricavato, alla fin fine, non sembrava importargli moltissimo, tanto più che, mentre tornava a casa dopo essersi dimesso, aveva investito un cane anche se non aveva avuto colpa nell’incidente:
«Comunque questa mia nuova libertà mi era iniziata imballando un cane. E forse era stato anche giusto così, perché uno la sua libertà può volersela iniziare in tanti modi, ma dipende sempre anche da che cosa il mondo ti dispone davanti, perché non c’è nessuno che stia in mezzo a un’immensa sfera piena di vuoto, ma chiunque, cioè tutti, stanno sempre in mezzo a delle sfere piene di pieni, e in questi pieni ci trovi anche delle cose che un bel momento ti saltano davanti alla faccia, senza che tu te le aspetti e anche senza che tu te le veda fino a un microsecondo prima. Poi sbam. Infatti io era già da vari anni che non volevo più essere libero, e di esser libero non me ne fregava neanche più niente perché non sapevo più neanche che cosa voleva dire essere libero, e in realtà il mio pensiero equivalente alla questione della libertà funzionava nella mia testa in altro modo perché io, già da un po’ di anni, quando ero in mezzo a qualcosa che capivo che non mi piaceva, o che non mi faceva star bene, che è la stessa cosa, io scappavo via a gambe levate, appena mi era possibile. Quindi libertà uguale fuga, questo pensavo riassumendo, scappar via appena ci è possibile»[1].
La citazione precedente mostra, nella sua lunghezza e nella sua articolazione, come Cornia sviluppi lunghi gomitoli di parole che si movimentano intorno a un’asserzione o a un evento, anche minore o minimo, che gli permette di dipanare le lunghe frasi che andranno a costituirne lo sviluppo.
Ma la libertà non dura molto e nuovi eventi incalzano per il professore ora disoccupato.
Il fatto è che, qualche tempo dopo, dopo aver consumato più o meno tutto il denaro accumulato, la necessità di guadagnare qualcosa per sopravvivere si fa sentire anche per il protagonista (nonostante le sue pretese di consumare poco e di vivere con nulla). Di conseguenza, sarà giocoforza accettare l’offerta prospettatagli di insegnare in un Istituto Professionale agrario di Finale Emilia come insegnante di sostegno. Ridotto ormai agli ultimi cinquecento euro di disponibilità monetaria, dopo essere stato mollato dalla donna che aveva conosciuto a Carpi, in Piazza del Mercato, nel momento di maggiore floridità economica, l’ultima sua possibilità resta la scuola e accetta il posto.
Nel Professionale si troverà benissimo: a parte una serie di colleghi con cui riuscirà a dialogare, sarà con alcuni studenti disagiati che instaurerà un ottimo rapporto non solo didattico.
In particolare sarà con Eugenio Calza, uno studente “maniaco”, assatanato nell’insistere nel voler vedere funzionare le lavatrici (e nell’Istituto ce n’era una nella stanza dei bidelli), appassionato e accanito collezionista di tappi di bottiglie di birra e di vino (attività fortemente biasimata, però, dal collegio dei professori), apparentemente strambo e un po’ fissato, ma di grandissima umanità. E così il ritorno all’insegnamento rende il Narratore-Cornia finalmente felice e appassionato nei confronti dell’attività che odiava, pur avendola scelta fin dall’inizio:
«E quel giorno poi così ripartivo felice anch’io verso casa, felice che mi tornava lo stipendio, e guidavo contento guardando le case a bordo strada, coi loro giardinini, così bellini e in ordine (quelli che otto mesi prima, essendo io di malumore, mi erano sembrati i giardinini del cazzo delle casette di merda), e poi anche la campagna e i borghi sparsi, nel grande slargo di tutto, e così, però, mentre guidavo, diciamo a metà strada, un po’ prima di metà strada, diciamo più o meno nel luogo di imballaggio del cane, anche se coscientemente al cane in quel momento lì non ci pensavo, però già lì, guidando felice verso casa, risolto per l’immediato il problema stipendiale, questi vari mesi in cui dei soldi di continuo erano usciti, senza che neanche un soldino in cambio fosse entrato, ma a ansia calante mi saltava immediatamente agli occhi che otto mesi prima una bella mattina, il caso aveva voluto che sempre su quella stessa strada io avevo pensato mi licenzio, e avevo poi provato per una volta nella vita questa gioia di licenziarsi perché mi ero stufato di farmi tutti i giorni questi cento chilometri, cinquanta a andare e cinquanta a tornare, fino a Finale Emilia. E alzarmi prestissimo. E poi ancora mezzo rimbambito andare a più di cento all’ora»[2].
Ma ora che rifà la stessa strada, alla stessa velocità e praticamente agli stessi orari, il Narratore è felice di essere tornato a insegnare. Nel corso della sua lunga supplenza quasi-annuale sperimenterà un rapporto privilegiato con il suo allievo Eugenio con il quale si divertirà, ad esempio, a mettere in scena delle sequenze dialogate da I Promessi Sposi (che loro chiamano scenette) in cui, però, il ragazzo si sentirà sempre più a suo agio a interpretare don Abbondio che i bravi che lo minacciano.
Anche con altri studenti dello stesso Istituto (un ragazzo di nome Pietro con il quale solidarizzerà) metterà in piedi giochi e sceneggiate che lo divertiranno moltissimo (uno di essi consiste nello stabilire se il Narratore ha moglie o meno, visto che finge – benissimo, peraltro – di aver perso la memoria e non riuscire a ricordarselo più).
Al Narratore-Cornia piace stare a investigare nella mente di chi lo circonda, specialmente se quest’ultima funziona un po’ misteriosamente e/o bizzarramente (come quella di Eugenio o di Pietro, le cui trovate e i cui curiosi comportamenti lo affascinano sempre):
«E’ sempre stato strano e un po’ impossibile capire veramente che cosa c’è nella testa di un altro, e però per me è sempre stata anche una delle cose più belle lo stare a guardare, quando appaiono, alcuni dei pezzi di quello che tutti i cervelli, continuamente e instancabilmente, producono. Allora ti vedi queste sequenzine di parole-pensieri-eccetera che a un certo punto saltano fuori, passano, e poi scompaiono»[3].
Il che poi è quello che lo stesso Cornia cerca di fare nel suo non-romanzo che di romanzesco ha le sue stesse esperienze di scrittore / precario nella scuola ma che acquistano sapore straniato e onirico quando vengono raccontate e perdono il sapore un po’ perfido dell’autofiction che, invece, avrebbero potuto mostrare e rivelare. L’anno scolastico del Narratore, allora, si mostra pieno di un’empatico riverberarsi di caute e simpatiche esplosioni di follia e lo stesso accadrà poi, una volta finita la supplenza all’Istituto agrario, quando sarà mandato in altri professionali (o, come viene correttamente puntualizzato, IPSIA) dove potrà verificare come i suoi allievi siano probabilmente sempre i più buffi o bizzarri di tutti – come un tale Ponzielli che ha lo zaino pieno zeppo di buondì Motta perché ha sempre fame o i due cugini (uno dei quali si chiamava Giannetti) di cui il primo era molto ordinato e religioso mentre l’altro portava i capelli da rasta ed era disordinatissimo…
Si tratta di un universo variegato e complesso nella sua totale dispersione mentale in cui il Narratore si trova, però, a meraviglia. Le sue avventure scolastiche, infine, complicate da quella lucida follia che contraddistingue la burocrazia scolastica (e non), finiranno con il giugno degli esami di maturità: sarà stato così un anno vissuto meravigliosamente (nonostante gli eventuali e inevitabili alti e bassi) e pericolosamente, in bilico tra pazzia e voglia di vivere, in contatto con studenti straordinari e spesso sconvolti (sarà, ad esempio, il caso di uno di essi, Mattia, che prendeva degli psicofarmaci che aveva però lasciato a casa e che il Narratore dovrà andare a prendere insieme al suo studente), interessanti e interessati soprattutto alla bizzarrie della vita.
Metafora quest’ultima proprio della vita che Cornia sa descrivere in maniera disordinatamente esatta con la scrittura che sembra non andare da nessuna parte e che, invece, arriva sempre alla giusta conclusione del suo dettato.
NOTE
[1] U. CORNIA, Il Professionale. Avventure scolastiche, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 25-26.
[2] U. CORNIA, Il Professionale. Avventure scolastiche cit. , pp. 48-49.
[3] U. CORNIA, Il Professionale. Avventure scolastiche cit. , p. 66.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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