Perché si scrivono libri inutili ? Un paio di interrogativi ad uso critico (e non solo)
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di Giuseppe Panella
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La stroncatura non è un genere letterario che probabilmente non mi si conviene molto e questo spiegherebbe perché finora non ne ho mai scritte di alcun tipo.
Inoltre, fedele all’imperativo di Ludwig Wittgenstein per cui “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, mi sono sempre astenuto dal criticare severamente alcuno o alcunché.
Anche stavolta non sarà tanto una recensione volutamente impietosa che scriverò quanto una serie di riflessioni su un fenomeno che mi inquieta e mi diverte insieme.
Si prenda un libro come Maremma maiala. Storie di Sandro Barlettai1, opera di uno scrittore esordiente di buona, anzi ottima volontà (anche se non più certamente giovanissimo) che vorrebbe presentarsi come una tranche de vie (avrebbe scritto nell’Ottocento un Émile Zola), un ricordo appassionato e lancinante di un’epoca ormai trascorsa carico com’è di rimpianti e di memorie della propria vita familiare e sentimentale, una sorta di ricostruzione di un periodo storico personale e generale, un tentativo di fare giustizia di pregiudizi su una zona dell’Italia centrale che suscita echi non sempre favorevoli in chi ne sente parlare o si trova a visitarla.
Ma quale è il risultato generale della sua lettura, anche della più benevola possibile ?
Si è in presenza di un libro inutile che avrebbe benissimo potuto non essere pubblicato senza che il suo autore ne ricavasse il benché minimo vantaggio (e non parlo di quelli economici – peraltro molto dubbi e aleatori – che si possono ricavare dalla pubblicazione di un libro da parte di un editore costretto, come tantissimi altri, a chiedere un contributo di stampa all’autore).
E perché mai questo libro è inutile ? Perché, con scarsissime percentuali di estimatori in famiglia e tra gli amici più intimi, il suo contenuto e, soprattutto, la sua forma di scrittura non interessa a nessuno. Non si tratta, peraltro, di un libro brutto quanto di un libro che non serve più o meno a niente. E allora perché è stato scritto?
Senza voler fare il processo alle intenzioni di nessuno, direi che si tratta del classico prodotto “ad uso proprio” in cui si annota, a propria personale memoria futura, episodi o momenti della vita passata per non dimenticarli o farli dimenticare a chi ci è vicino. Ma per raggiungere questo obiettivo, però – va detto – che non c’è bisogno di pubblicare un libro : basta scriverlo e tenerlo nel cassetto. I posteri, se vorranno o potranno o lo riterranno opportuno, lo pubblicheranno il più tardi possibile si spera per il suo autore, in memoriam.
Pubblicarlo in vita non serve a rinfocolare l’affetto dei propri cari o il grato ricordo di quelli che ormai sono già passati ma dà al lettore occasionale un senso di fastidio come in presenza di qualcosa di intimo e personale che gli viene squadernato in faccia senza alcuna necessità.
Che cosa si ricava, infatti, da un libro come questo ?2.
Una ricostruzione d’ambiente piuttosto convenzionale, un divertimento molto limitato (nonostante le promesse da parte dell’autore di far sganasciare il proprio lettore dalle risate), una conoscenza certamente interessante ma assai poco approfondita del dialetto (quello maremmano, in questo caso), una serie di aneddoti non entusiasmanti anche se sicuramente veritieri, una galleria di personaggi talvolta un po’ strampalati e tutti molto simpatici (all’autore) e poco più.
Valeva la pena pubblicare un libro di questo tipo senza provarsi neppure a cercare di innovare il genere nella forma e (almeno un poco) anche nel contenuto ?
Sono interrogativi che emergono con una certa forza dopo aver letto, non dico centinaia, ma almeno una ventina di libri di questo tipo.
La morale che se ne ricava è che scrivere è un’attività splendida per chi la pratica, straordinariamente appagante, molto gratificante per chi si illude in quel mentre lo fa di essere uno scrittore “vero” mentre, invece, chi legge si trova quasi immediatamente gettato in una condizione di grande frustrazione. Infatti, dopo aver finito Maremma maiala che cosa me ne è rimasto ?
Mi si dirà che avrei potuto evitare di leggerlo o che non è detto che un grande scrittore balzi agli occhi di tutti per la sua bravura e le sue capacità a primo acchito. Il che è vero. E’ un criterio che è da adottare sicuramente nei casi di giudizio dubbio o controverso.
Ma come si fa ad apprezzare la proposta di un aneddoto come quello che seguirà ? In uno splendido parco della Maremma, alcuni giovani amici ivi riuniti bevono in grande quantità aranciate, birre, coca-cola potentemente e pesantemente gassate e si lasciano andare, forse volontariamente, forse giocoforza, a una serie di vigorosi e giustificati (dalla natura delle bevande) rutti fragorosi :
«Di norma, almeno in pubblico, i più educati cercavano di trattenere almeno il rumore roboante emettendo l’aria con un soffio leggero, ma c’è sempre quello che se ne frega delle convenzioni sociali e uno di noi, dopo aver ingerito una sorsata massiccia di birra, allargò la bocca nel verso dell’ippopotamo ed esplose un rutto fragoroso che, sul momento, lasciò di stucco l’intera comitiva. Di fronte a situazioni analoghe la battuta di prassi era : “Salute e ghianda!”, che era un modo gentile di dare del porco a una persona nella convinzione, mai provata del tutto, che il nobile suino sia ghiotto del frutto della quercia, ma in quel caso l’evento superava di molto il livello della normalità e, dopo un attimo di disorientamento, la parte maschile della compagnia si lasciò andare a una potente risata. A dire il vero anche le ragazze per lo più accennarono un sorriso, ma una di loro, giustamente disgustata dall’atteggiamento poco urbano, si sentì in dovere di riprendere lo screanzato pronunciando quella che, nella sua immaginazione, avrebbe dovuto essere una battuta tagliente per fargli fare una brutta figura e, rispolverando una vecchia frase, comunicò : “Al tempo dei maiali eran sospiri!”. L’autore del gesto, mentre la ragazza gli indirizzava l’ingiuria, si accese una sigaretta e, con tutto l’aplomb che gli era proprio, ribattè : “E a quello delle troie godimenti !”. Dopo di che aspirò con soddisfazione una profonda boccata dalla sua sigaretta e riprese le sue dissertazioni filosofiche da poco interrotte»3.
A chi può piacere o può far ridere un simile aneddoto sciapo, scontato e volgare (ma neppure poi genuinamente così tanto) ? Temo che la risposta sia : nessuno.
L’altro interrogativo che mi viene subito in mente è anche un altro : chi viene a guadagnarci da un’operazione del genere ? L’editore certo, anche se fino a un certo punto perché deludendo troppo i suoi “venticinque lettori” finirà per alienarseli in via definitiva e si guadagnerà la pessima nomea di essere un editore “per soldi”.
Tutti gli editori, in realtà, lo sono (lo ammetteva perfino Gaston Gallimard !) e pubblicano per guadagnare denaro in cambio della loro attività produttiva, ci mancherebbe altro, ma trasformarsi in una tipografia senza dichiararlo esplicitamente nella propria ragione sociale non è fine, non è onesto e deturpa l’immagine pubblica dell’impresa editoriale come tale.
Dunque ? L’autore ci investe e spende senza neppure, nella maggior parte dei casi, ricavarne i quattrini buttati nell’iniziativa; l’editore vede ribadita l’accusa di essere esclusivamente un commerciante venale e il pubblico, già spesso scarno e un po’ macilento di suo, ne resta desolato e scontento. Di conseguenza, pubblicare libri di questo tipo non serve a nessuno e la gloria tanto agognata si allontana.
Un altro esempio di libro “inutile” che mi viene in mente è l’esordio narrativo dello sceneggiatore Roberto Gandus4 dedicato al sanguinoso episodio criminale di Villarbasse, un paesino in provincia di Torino, avvenuto nel 1945, a pochi mesi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale5.
Anche in questo caso, tuttavia, la domanda che sorge spontanea è : a che cosa serve dichiarare di scrivere la storia di un episodio realmente accaduto e passato alla storia come l’ultima esecuzione capitale comminata in Italia e poi cambiare tutti i nomi, modificare in gran parte le vicende e le psicologie mentre chi legge si aspetta di conoscere i particolari “storici” di quell’evento tragico della storia italiana ? A che cosa serve scrivere un romanzo storico che non lo è ?
Nonostante l’abilità nella costruzione della storia da parte di Gandus, infatti, il suo progetto resta in parte indefinito e non concluso proprio perché, muovendosi a metà tra ricostruzione storica6 e invenzione fantastica, il tutto resta a metà e non si risolve ad essere interamente qualcosa di preciso.
Ancora una volta : a chi giova tutto questo ? Forse all’autore ma non certo al lettore che resta frustrato nelle sue aspettative e forse all’editore che può “strillare” l’argomento macabro del libro.
Sicuramente non giova alla narrativa di genere che si vede, ancora una volta, confinata in un ambito di serie B mentre, invece, l’occasione di scrivere un testo ben documentato e ben fondato su un apparato storico di dati autentici è andata perduta.
Inseguendo, invece, un qual certo sensazionalismo nella scrittura, l’effetto di verità del testo si perde e si dilegua in un certo effettismo di tipo cinematografico senza positive conseguenze stilistiche. E, allora, senza essere riuscito a dar(mi) una risposta adeguata, mi ripeto : a che servono libri inutili come questi ? Ad alimentare una catena di pubblicazioni senza fine che si autoalimenterà ancora a lungo senza risultati tangibili e senza raggiungere gli scopi che si era prefissa.
NOTE
1 Pubblicato nel 2013 da Marco Del Bucchia Editore di Massarosa (Lucca).
2 Analoghe considerazioni si potrebbero fare, solo per fare i primi esempi che mi vengono sotto mano, per altri libri dello stesso genere come quelli del matematico normalista Niccolò Pintacuda, Racconti per un mese, Massarosa (Lucca), Mauro Del Bucchia, 2013 o di Mario Rizzo, Ratatà, Enna, Editore Papiro, 2003, ma voglio risparmiarle agli eventuali lettori miei.
3 S. BARLETTAI, Maremma maiala. Storie , Massarosa (Lucca), Mauro Del Bucchia, 2013, pp. 130-131.
4 R. GANDUS, L’ultima esecuzione. Villarbasse 1945, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2013. Gandus non è certo uno sprovveduto ed è stato sceneggiatore per registi di notevole talento come Duccio Tessari (per Tony Arzenta del 1973) e di altri, più volenterosi che bravi (Eriprando Visconti, il nipote di tanto zio o Ugo Liberatore) e autore poi di serie televisive di successo come Don Tonino o Brivido giallo. Di conseguenza, ha esperienza nell’ambito della scrittura di genere e nella costruzione del climax necessario a renderla accettabile.
5 La strage di Villarbasse avvenne il 20 novembre 1945 : dieci persone furono massacrate nella Cascina Simonetto ad opera di quattro siciliani sbandati (Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti e Pietro Lala) che si aggiravano nei dintorni. Si trattava dell’ avvocato Massimo Gianoli di 65 anni, proprietario della casa padronale che vi stava cenando insieme alla sua domestica Teresa Delfino, mentre nella casa dell’affittuario Antonio Ferrero si stava festeggiando la nascita di una nipotina con un grande banchetto. A questa festa erano presenti, oltre a Ferrero, sua moglie Anna, il genero Renato Morra, le domestiche Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, più un bimbo di due anni e il nuovo lavorante della cascina Marcello Gastaldi. Alle vittime si aggiunsero poi i mariti delle due domestiche, Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, che erano andati a cercarle. Dopo che uno di loro, il D’Ignoti, aveva confessato rivelando il nome dei suoi complici (uno di loro, Pietro Lala, intanto, era stato ucciso nel suo paese di Mezzojuso, in provincia di Palermo, probabilmente in relazione a una faida di carattere mafioso), anche se solo in seguito a una serie di indagini andate a vuoto e dopo un paio di arresti ingiustificati, al solito, di innocenti, i tre colpevoli superstiti furono fucilati il 4 marzo del 1947. Fu l’ultima esecuzione eseguita prima che la pena di morte fosse abolita dal Codice Penale della Repubblica Italiana (il Presidente della Repubblica di allora, Enrico De Nicola, aveva rifiutato la grazia agli assassini per l’efferatezza del loro delitto).
6 Come, invece, avviene in G. F. VENE’ , Vola colomba. Vita quotidiana degli italiani negli anni del dopoguerra 1945-1960, Milano, Mondadori, 1990, pp. 103-105.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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