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Ma anche che poi quest’ultimo abbia “non vinto” non tanto con il centro destra, ma con lo straordinario (e irripetibile) risultato del M5S di Grillo e dell’antipolitica. E la sua fortuna continua oggi con un centro destra diviso, privo di un programma, e con leader che hanno - ciascuno - raggiunto il proprio massimo risultato possibile, che siano Toti, Salvini, Meloni, Alfano, Fitto… nessuno, separatamente, può andare oltre le proprie percentuali e nessuno disposto a fare passi indietro per una scelta unificante. La sua fortuna continua poi sul fronte interno: ci sono divisioni, anche profonde, ma la domanda retorica (non troppo) che sottintende tutto è “ok, e una volta che mandiamo a casa Renzi? chi sarebbe l’alternativa capace di competere, per non dire di vincere?”. In assenza di una vara risposta a questa che è e resta la vera domanda tutta la dialettica politica interna nel Pd diventa secondaria, e nella migliore delle ipotesi finisce con l’apparire sterile e senza alcuno scopo strategico. Un esempio per tutti è lo scontro sulla legge elettorale: votare contro, e poi? E se il governo mette la fiducia? E se votiamo contro e il governo “va a casa”? Qual è la proposta alternativa? E in assenza di questa alternativa - concreta e reale - tutta la questione politica e di merito finisce in secondo piano. La fortuna di Renzi (per la metà della quale qualsiasi politico pagherebbe oro!) finisce qui, e ne costituisce però anche il limite e il punto di partenza di tutti i suoi rischi politici. Matteo Renzi è il primo segretario del Pd eletto “con voto popolare” ma senza una vera maggioranza “nel” partito (prese circa il 44%). E tuttavia con questo meccanismo di primarie “aperte” ha ottenuto una percentuale di componenti della direzione nazionale assolutamente sproporzionata. Molti di coloro che lo hanno appoggiato nelle seconde primarie dopo appena un anno non sono renziani. Opportunismo, salire sul carro del vincitore, far parte della maggioranza… tutte questioni patologiche (più che politiche) di cui il segretario premier non può non tener conto e che la stampa ha ampiamente ricordato. Sono passati mesi, ma di certo “la natura di quella componente” non può essere considerata “base solida” di maggioranza interna, pronta a cambiare asse in caso di “cambiamento di verso” (o vento). C’è poi un duplice errore comune alla maggior parte dei leader politici - da De Magistris a Renzi passando per Grillo e Berlusconi e Salvini, nessuno escluso anche se ciascuno con proprie declinazioni - e sono due errori quasi sempre coincidenti: da un lato non avere la percezione esatta di quando la propria parabola è all’apice, il che fa sì che ci si accorga che “quello era l’apice” quando si scende la china, e il secondo è di difendersi dagli “attacchi esterni” rinchiudendosi nel proprio “cerchio magico”, spesso composto di persone che non hanno un proprio autonomo consenso politico ed elettorale, e che altrettanto spesso “devono tutto” al leader - il che fa sì che spesso quel cerchio magico sia composto prevalentemente di yes-people. La politica renziana ha avuto un grande appeal europeo - di cui si è anche fortemente puntellata - anche grazie a grandi eventi, come il semestre di presidenza europeo, le elezioni europee, la scelta della nuova commissione, la nomina dei commissari, adesso l’Expò… un ciclo importante che però si è esaurito. A questo si aggiunge il fatto che il metodo “fassinachi”, che ha portato alle prime dimissioni dell’era Renzi al Nazzareno, declinato nelle varie formule e declinazioni dei casi Cuperlo (ex presidente del partito) sino a Roberto Speranza (da capogruppo alla Camera), ormai è un format conosciuto: forzare la mano sino al punto del “o ti dimetti o ti pieghi” è una logica che non funziona più. Se non altro perché sono ben pochi ormai i ruoli ricoperti da “non allineati”. Se da un lato questo provoca un ampliamento dei margini di manovra politici da parte della segreteria, certamente implica anche che sempre più ci sia una considerevole maggioranza, numericamente crescente, che tecnicamente (e politicamente) non ha nulla da perdere nel fare opposizione interna. Né è ancora possibile gestire tutto il fenomeno del dissenso interno all’interno della retorica politica del “vecchio contro nuovo” o del binomio “fare le riforme vs. immobilismo”. Parlare sempre di “vecchio” non è risolutivo, né la riflessione sui contenuti (specie se riforme istituzionali) equivale a immobilismo. Peggio ancora se la questione viene posta in termini di “chi dissente lo fa per tutelarsi rendite di posizione”. Sarebbe sin troppo facile ribaltare la questione e dire chiaramente che certe riforme servono solo a garantire i fedelissimi. E non giova nemmeno che in questa fase molto delicata - prima di tutto nel confronto interno del Pd - il cd. “cerchio magico” sia prevalentemente composto di persone alla prima esperienza verticistica, sia di partito che di governo, e conta molto più tale esperienza non tanto nel ricoprire ruoli pubblici (come un ministero) quanto ruoli tecnici o organizzativi (segreteria di partito, incarichi organizzativi e tecnici, segreterie politiche…). Davanti c’è non solo l’estate, ma una folta per quanto eterogenea minoranza abilissima nelle politiche di logoramento, per altro con l’approssimarsi della metà della legislatura, che garantisce l’accesso al vitalizio al folto ed eterogeneo vero gruppo di maggioranza: quello dei parlamentari al primo mandato (molti dei quali anche certi che sia l’unico). Il nuovo asse catalizzatore dell’opposizione interna paradossalmente è proprio la politica renziana, la scelta della “testa bassa” nella convinzione di essere - come disse mesi fa a Scalfari - “l’unica alternativa possibile a se stesso”. Un’asse che oggi ha un’intesa pesante nel trinomio Letta-Prodi-Bersani e cui manca solo un leader capace di unire e di essere alternativa concreta e credibile. Un’asse che ha come migliore alleato proprio la chiusura del premier, la stretta cerchia che lo ha portato a scelte discutibili per arroccare posizioni: dall’Agid prima ai candidati europei, a molte scelte locali, ai molti commissariamenti, a qualche cedimento di troppo sul fronte del rigore interno, a qualche avversario di troppo fatto fuori con troppa leggerezza, alle scelte fatte nel “decreto nomine” sino a quella del ristorante dell’Expò affidato senza gara all’amico fidato e sostenitore della prima ora Farinetti o come quella di Montezemolo nel ruolo di promoter dei prossimi mondiali Roma2024 immemori del dejavù di Italia90. Lungi dal voler dare suggerimenti al premier, restano sul campo almeno tre considerazioni. La prima, che voler riformare davvero un Paese complesso come l’Italia, necessita di un coinvolgimento davvero largo e collettivo, e il decisionismo - necessario - non deve mai sfociare nemmeno in una parvenza di arroganza. A meno di non vedere le proprie riforme - com’è sempre stato - durare poco più della propria legislatura, per essere cancellate dalla successiva. La seconda, che non si governa un partito con una stretta cerchia impermeabile, che spesso si trasforma in “stanza stupida”. La terza, è che spesso il peggior nemico di un politico non è altri che se stesso, e che facilmente le virtù che fanno vincere si trasformano in difetti nell’atto di governare. Per questo occorre sempre più - specie nell’era della comunicazione totale - avere la lungimiranza di circondarsi di persone che la pensano diversamente da te.
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