Nel contesto di un racconto che parla di 35enni all'inizio degli anni '80 e quindi universitari quindici anni prima, quella musica rappresenta il portato di tutti i loro sogni, la forza del loro movimento in quanto generazione. Guardando Il grande freddo e ascoltando You Can't Always Get What You Want ti accorgi che quella musica è lì, nel film, non grazie a quelle persone, ma, al contrario, che quelle persone sono lì - e sono lì in quanto generazione - grazie a quella musica.
Il passaggio è fondamentale, perché oggi per fare un amarcord bisognerebbe ambientarlo negli anni '90 o magari già nel presente, visto che la nostalgia è uno dei nostri totem, e si dovrebbero usare il grunge, l'indie, il brit pop, magari pure l'elettronica, vale a dire una musica bellissima, anche migliore di quella celebrata degli anni '60 e '70, ma purtroppo incapace di creare partecipazione, coinvolgimento, non a caso nata come ripiegamento solipsistico e depresso dei loro autori, come fuga dal mondo e riparo di fronte all'incertezza del futuro, tra il buio di fronte agli occhi del Cobain strafatto e meraviglioso, le morti solitarie di Jeff Buckley ed Elliot Smith e l'estraneità aliena di Thom Yorke; tra Eddie Vedder che si rivolge alla società sperando che lei non si senta troppo sola senza di lui e il folle visionario Sufjan Stevens che in The Age of Adz, che dovrebbe essere l'inno di una nuova era, in un passaggio dolentissimo di verità lancinante, canta I lost the will to fight / I wasn't made for life.
Lì c'è tutta la differenza tra la nostra generazione e la loro, noi che generazione non siamo mai stati e che nel grande freddo ci siamo nati.