Anno: 2012
Durata: 93′
Produzione: Bridge and Tunnel Productions
Genere: drammatico
Nazionalità: UK
Regia: Tina Gharavi
Everybody wants to rule the world
Una Susanne Bier di Teheran, con l’occhio ‘verista’ made in Uk (anche se il cinema l’ha studiato in Francia)? Tina Gharavi controlla saldamente questi due opposti visivi dentro I’m Nasnire (nella sezione del Concorso Internazionale e il ritratto della sua protagonista (l’empatica e penetrante Mischa Sadeghi). Un film ‘piccolo’, come lei stessa l’ha definito salutando e ringraziando il pubblico presente alla proiezione, ma che riesce a tenere dentro autentici stati d’animo, tipologie umane, un vissuto sociale periferico di diversa estrazione, parimenti palpabile nella rispettiva essenza-resistenza esistenziale: il primo, in Iran, da dove ne facciamo conoscenza, fotografa la 17enne Nasnire in groppa ad una moto guidata da un suo amico, con l’inseparabile videocamera che cattura-fissa frammenti di vita iraniana. Quel giro, aggraziato-allargato nella apparente normalità dall’indimenticabile (e occidentale) “Everybody wants to rule the world” dei Tears For Fears in sottofondo, si tramuta immediatamente nel fermo di polizia della giovane, il cui rilascio sarà per lei (e i suoi cari), pagato a caro prezzo. La famiglia si scinde: Nasnire e il fratello Ali (il bravo interiorizzatore di emozioni Shiraz Haq), arrivano in Inghilterra, in un suburbano periferico già stretto e pregiudizievole per i suoi stessi abitanti. Qui cominciano a fatica a rinascere, ognuno a modo proprio. Nasnire, con la libertà (innata) di essere se stessa; il fratello, costipato nel senso di responsabilità-dovere di capofamiglia, in lotta con il proprio io nel rivelarsi realmente per quello che è. In mezzo, l’occhio visivo della regista di origini iraniane ci stupisce per la capacità di cogliere istantanee di luce, degrado, quotidianità, con movimenti di macchina e fotografia che si imprimono per forza oggettiva di rappresentazione. Un pezzo di verità ci appare lampante, nella bellezza del verde delle campagne inglesi, nella meschinità di architetture decadenti, negli immobilismi umani di vuoti temporali, nella poesia della semplicità e ricchezza della vita da allevatori di cavalli, nei flashback emotivi sovrapposti agli stati d’animo attuali con la fascinazione dissolvente e variopinta di rimembranza visiva.
La componente melodrammatica, sempre discretamente presente con evidenza, esplode nella inopportuna scelta di un finale irrealmente tragico, che rompe quel dialogo fino a quel momento riuscito tra realtà e finzione. Tina Gharavi è da tenere d’occhio per i contrasti che è capace di costipare.
Maria Cera