di Giorgio Gattei (*)
Una pace “per sempre”: da Kant a Angell.
La guerra è brutta – e chi lo nega! Però la si fa – e come si spiega? Frutto della straordinaria stagione illuministica europea lo scritto di Immanuel Kant Per la pace perpetua (1795) si era posto il compito ambizioso di trovare la maniera di por fine a tutte le guerre, e per sempre. Alle spalle dell’opuscolo stava quasi un secolo di “guerre di successione” in cui i regnanti avevano trascinato i popoli europei in micidiali conflitti per garantirsi questa o quella ascesa al trono (guerra di successione spagnola: 1701-1714; guerra di successione polacca: 1733-1738; guerra di successione austriaca: 1740-1748 e perfino quella che le monarchie avevano appena scatenato contro la giovane Repubblica francese poteva esser vista come l’ennesima guerra dinastica per rimettere Luigi XVI sul trono di Parigi). Davanti a questo fatto evidente la soluzione avanzata da Kant risultava la più semplice possibile perché a suo dire, ad impedire le guerre, sarebbe bastato che a deciderle fossero coloro che più di tutti le sopportavano, e cioè i popoli stessi.
In effetti, a partire dalla Querela pacis (1517) di Erasmo da Rotterdam, erano stati avanzati diversi progetti di “pace universale”, ma tutti avevano il difetto di rivolgersi al buon cuore dei prìncipi affinché deponessero le loro aggressività. Con Kant invece si laicizzava il rimedio: se la guerra era iscritta geneticamente nell’assolutismo d’antico regime essa poteva essere eliminata soltanto da una forma repubblicana di governo che rendesse tutti i cittadini partecipi alla decisione di farla o meno. Infatti soltanto la costituzione repubblicana (che per Kant voleva dire lo “stato di diritto” al posto del dispotismo) avrebbe potuto condurre all’esito desiderato della pace perpetua «e la ragione è la seguente: se (come deve per forza accadere in questa costituzione) per decidere se debba esserci o no la guerra viene richiesto il consenso dei cittadini, allora la cosa più naturale è che, dovendo decidere di subire loro stessi tutte le calamità della guerra (il combattere di persona, il pagare di tasca propria i suoi costi, il riparare con grande fatica le rovine che lascia dietro di sé e, per colmo delle sciagure,… il caricarsi di debiti che, a causa delle prossime nuove guerre, non si estingueranno mai), essi rifletteranno molto prima di iniziare un gioco così brutto» . Sarebbe quindi bastato che la decisione di ricorrere alle armi nelle controversie internazionali fosse passata al “popolo sovrano”, e non più lasciata ai monarchi, perché la guerra, ogni guerra, venisse spontaneamente impedita, essendo la volontà popolare più incline alla pace che alla guerra.
In uno scritto precedente Kant aveva però considerato il problema in una prospettiva storica avanzando qualche dubbio sulla realizzabilità della sua proposta sembrandogli la guerra, «al grado di cultura cui è pervenuto il genere umano, come un mezzo indispensabile per perfezionarlo ancora». Di conseguenza – ne concludeva – «sarà solo dopo il completamento (ma Dio sa quando!) di questa cultura che una pace eterna ci sarà salutare e diverrà perciò possibile» . Infatti, come credere che bastasse l’attribuzione del diritto di decisione politica a tutti i cittadini per assicurare la pace tra le nazioni? C’era da dubitarne, come poi è stato compreso, perché la volontà popolare è afflitta dal difetto, come Norberto Bobbio ha riconosciuto, del «cittadino non educato», da intendersi come colui che, indifferente al dibattito politico, lascia che siano gli altri a decidere al posto suo. Si formano così, all’interno del procedimento di decisione, dei gruppi di potere ristretti a coloro che invece non se ne disinteressano, con la conseguenza che governi pur democratici finiscono per decidere sulla testa, e non in nome, dei propri cittadini che si accontentano di vivere senza affanni, essendo paradosso della democrazia che la “gggente” vuole meno e non più politica. Ora «la resistenza e la persistenza del potere invisibile sono tanto più forti, anche negli stati democratici, quanto più si prendono in considerazione i rapporti internazionali» , così che se quei “poteri invisibili” (che sono anche “poteri forti”) ritengono conveniente la guerra, i governi la faranno anche a dispetto della volontà di pace dei popoli che rappresentano, ritenendosi autorizzati ad agire in questo modo perché risultano democratici senza praticamente esserlo più.
Eppure pere Kant non era lecito disperare perché non tutto si sarebbe risolto in politica, essendoci almeno un potere invisibile che avrebbe spinto, nel proprio interesse, sicuramente verso la pace qualora la decisione popolare avesse fatto (come fa sempre) difetto. Era questa la “clausola di garanzia” che veniva segnalata nel Primo supplemento alla Pace perpetua e «ciò che fornisce questa garanzia è niente di meno che la grande artefice natura dal cui corso meccanico si vede brillare la finalità che dalla discordia tra gli uomini fa sorgere la concordia anche contro la loro volontà e per questo viene chiamata destino come se si trattasse dell’obbligazione risultante da una causa che agisce secondo sue leggi a noi sconosciute» . Ora questo “destino” era proprio dei tempi moderni e si presentava sotto la veste dello spirito commerciale che spingeva tutti i popoli della terra a scambiarsi reciprocamente le merci singolarmente prodotte. Era insomma quella stessa “grande artefice natura”, che separava i popoli in Stati politici discordi, a congiungerli con l’attrattiva del «reciproco tornaconto: è lo spirito del commercio che non può convivere con la guerra e che prima o poi s’impadronisce di ogni popolo. Infatti, dato che di tutte le forze subordinate al potere dello Stato la potenza del denaro potrebbe essere quella più sicura, allora gli Stati (certo nient’affatto spinti dalla moralità) si vedono costretti a lavorare in favore della nobile pace e, in qualsiasi luogo la guerra minacci di scoppiare nel mondo, a impedirla tramite mediazioni proprio come se si trovassero in una eterna alleanza per questo… E’ questo il modo particolare in cui la natura garantisce la pace perpetua con il meccanismo delle stesse umane inclinazioni; certo con una sicurezza che è insufficiente per predire (teoricamente) il suo futuro, eppure sul piano della pratica basta ed impone il dovere di lavorare per questo scopo non semplicemente chimerico» .
Quella che Kant evocava era l’ideologia del dolce commercio che aveva già preso a muovere la consapevolezza di mercanti ed uomini d’affari nella direzione di una pacificazione universale affidata alla intensificazione degli scambi. Provvisoriamente interrotto dalle guerre napoleoniche, questo “dolce commercio” doveva essere ripreso alla luce della teoria dei “costi comparati tra le nazioni” esposta dagli economisti classici (David Ricardo e John Stuart Mill in particolare) secondo cui ciascuna di esse, specializzandosi nelle produzioni territorialmente più convenienti e poi scambiandosele reciprocamente, avrebbe guadagnato un vantaggio economico equivalente (soltanto Karl Marx avrebbe denunciato nel Capitale questo scambio di valori come ineguale perché «tre giornate lavorative di un paese possono essere scambiate contro una di un altro,… (così che) il paese più ricco sfrutta il più povero, anche se questo ci guadagna nello scambio» – ma questo è un altro discorso).
Fu così che all’alba del Novecento il fatto indiscutibile di una raggiunta integrazione commerciale e finanziaria a livello planetario guadagnata grazie alla politica del “libero scambio” durante il lungo periodo della pax britannica, poté dare occasione al giornalista Norman Angell (poi premio Nobel per la pace) di pubblicare nel 1910 il fortunato best-seller La grande illusione in cui era rinverdita l’idea kantiana della “pace perpetua” a forza di commerci, essendo invece una “grande illusione” l’idea che con la guerra i popoli ci guadagnassero. Essendosi nei fatti ormai imposta sulle strutture politiche nazionali una rete di scambi internazionali in cui le merci e i capitali correvano senza più patria, ciascuno era diventato forzatamente amico del proprio simile essendo dipendente dai suoi beni e dai suoi denari. A queste condizioni una guerra, dannosa per i vinti, lo sarebbe stata anche per i vincitori a cui avrebbe imposto salassi di manodopera, aumento delle tasse, ristagno dei commerci ed un indebitamento generalizzato. Insomma, anche vincere sarebbe stato un suicidio perché «oggi abbiamo storicamente una condizione di cose in cui uno Stato non può causare nemmeno un danno lontanamente analogo a quelli dei tempi antichi, senza provocare contro sé stesso una reazione disastrosa» .
Fortunatamente a contrastare le velleità guerrafondaie di politici e militari operava quel mercato mondiale che era «il risultato di quelle innumerevoli operazioni giornaliere le quali avvengono quasi completamente al di fuori dell’ambito di azione dei governi e dei funzionari, spesso a loro insaputa, spesso loro malgrado, e rappresentano forze troppo vive e troppo inafferrabili per essere frenate e domate» . Proprio per questo – a parere di Angell – senza bisogno che governi e popoli s’ingentilissero la guerra sarebbe scomparsa dall’orizzonte dell’umanità perché legata ad una dimensione d’esistenza economica non più esistente: «più il nostro sistema commerciale cresce in complessità, più la comune prosperità viene a dipendere dalla fiducia che si può riporre nella dovuta esecuzione dei contratti. Questa è la vera base del “prestigio” nazionale e individuale; circostanze più forti di noi ci sospingono, ad onta di quanto possano dire i critici scettici della nostra civiltà commerciale, verso l’invariabile osservanza di questo semplice ideale» .
Insomma, c’era proprio da ben sperare: l’interesse economico condiviso avrebbe finito per imporre un comportamento funzionale al rifiuto della violenza quale mezzo d’affermazione nazionale. Come il mondo degli affari era stato costretto all’onestà per convenienza di mercato, altrettanto politici e popoli sarebbero diventati sempre più desiderosi di pace fino a «porre le fondamenta di una razionale politica internazionale» . Peraltro la prova non stava già nei fatti? Dalla guerra franco-prussiana del 1870 sul continente europeo non si erano più verificati conflitti (i Balcani facevano parte a sé) e perfino nella dimensione d’oltremare le contese tra le grandi potenze, come nel Sudan egiziano tra Francia e Gran Bretagna nel 1898 oppure in Marocco tra Francia e Germania nel 1905 e nel 1911, avevano trovato risoluzione diplomatica con i francesi che avevano abbandonato il Sudan e la Germania che si era ritirata dal Marocco. Il “concerto delle nazioni europee” (come allora era chiamato) sembrava essere così in forma che nel 1900 era stato costituito all’Aja un Tribunale Internazionale (c’è ancora) allo scopo di dirimere le questioni internazionali tramite accordi tra le parti invece che con la forza delle armi. Per questo come pensare che l’ormai costituita unità del mercato mondiale si potesse frantumare in una dispendiosa guerra fratricida, l’economia avendola ormai vinta sulla politica? Sì, ma cosa diceva la geografia?
Il “mondo finito” e la guerra: da Mackinder a Lenin.
Infatti c’era chi la pensava diversamente. Erano i marxisti che all’alba del Novecento avevano proseguito la critica marxiana del capitale nella direzione della nuova dimensione storica raggiunta dall’imperialismo. Nell’invarianza della maniera del produrre, sul finire del XIX secolo quel capitalismo libero-scambista che Marx aveva conosciuto era stato soppiantato da un capitalismo monopolistico e protezionista in cui all’esportazione di merci si era aggiunta, per sfuggire alla maledizione della caduta del saggio del profitto in patria, l’esportazione dei capitali e questo aveva cambiato tutto, tanto che Nikolaj Bucharin aveva potuto definire «il capitalismo contemporaneo come capitalismo esportatore» . A seguito di ciò la scena economica del mondo aveva preso ad affollarsi di capitalismi nazionali in competizione per l’accaparramento degli “spazi vitali” su cui piazzare, oltre all’eccedenza di manodopera (le colonie di popolamento) ed il supero delle merci (gli sbocchi commerciali), anche l’esuberanza dei capitali ed alle grandi potenze d’antica data, come Gran Bretagna e Francia, adesso si erano aggiunte Germania, Belgio, Olanda, Russia, Giappone e perfino l’Italia.
Però il mondo ha una dimensione finita, così che quando la corsa frenetica all’occupazione degli spazi l’avesse percorso tutto, di terre ulteriori non ce ne sarebbero state più. Il che era quanto aveva drammaticamente esposto il 25 gennaio 1904 il geografo britannico Halford Mackinder in una relazione alla Royal Geographic Society che ha posto le basi di quella nuova “scienza-non scienza” che poi è stata chiamata geopolitica. La quale prende per l’appunto le mosse dall’esaurimento di territori disponibili all’occupazione da parte delle nazioni europee. La c. d. «età colombiana», inaugurata dalla scoperta dell’America, aveva proiettato l’Europa fuori di sé, ma alla svolta del Novecento andava riconosciuto che quella stagione storica stava arrivando al termine, «non esistendo ormai più regione di cui non si sia stabilita l’appartenenza politica… D’ora in poi, nell’età post-colombiana, si avrà ancora a che fare con un sistema politico chiuso, ma di portata mondiale, (cosicché) qualsiasi esplosione di forze sociali, invece di disperdersi nello spazio dei territori circostanti ancora sconosciuti e dominati dal caos barbarico, riecheggerà intensamente dall’altra parte del globo, facendo di conseguenza saltare gli elementi più deboli dell’organismo politico ed economico mondiale… Probabilmente, una qualche consapevolezza di questo fatto sta, in fondo, trasferendo gran parte dell’attenzione degli uomini politici, in tutto il mondo, dalla espansione territoriale alla competizione per una maggior efficienza del proprio Stato» .
Era proprio a questo livello di appropriazione planetaria conclusa che Mackinder avanzava la sua proposta di una «formula» capace di esprimere «alcuni aspetti della causalità geografica nella storia mondiale» ch’egli ritrovava nella contrapposizione delle “potenze di terra” euroasiatiche alla “potenza marittima” inglese. Nel 1943, ripensando all’esordio della sua idea geopolitica, avrebbe ricordato che, se a quel tempo l’unica minaccia alla pax britannica sembrava provenire dall’espansionismo territoriale zarista, così che «la potenza marittima della Gran Bretagna e la potenza terrestre della Russia erano al centro di ogni dibattito sulla scena politica internazionale» , la minaccia si stava invece spostando verso la Germania, allora impegnata ad approntare una capace flotta d’alto mare che per Mackinder poteva significare soltanto questo: «che la nazione che già disponeva della superiorità militare terrestre e che occupava la posizione strategica centrale in Europa stava per dotarsi anche di una potenza navale sufficientemente forte da neutralizzare quella britannica» . Quale comportamento allora tenere da parte del governo di Londra davanti al doppio pericolo di provenienza sia russa che tedesca? Sulla base della sua formula geopolitica che assegnava alla Russia la funzione di «cuore della terra» (Heartland) con spinta espansiva verso i mari caldi dell’Oceano Atlantico, bisognava impedirne assolutamente l’incontro con la Germania, che avrebbe potuto dar vita ad una potenza ibrida, sia di mare che di terra, sul continente euroasiatico. Da ciò il suggerimento strategico di operare per mantenerle separate, sostenendo la Russia quando assalita dalla Germania (come sarà nelle due guerre mondiali) ed appoggiando la Germania se minacciata dalla Russia, come durante la “guerra fredda”.
Che l’occupazione definitiva del mondo da parte delle grandi potenze europee avesse fatto fare un salto di qualità al sistema delle relazioni economiche internazionali, rendendo impossibili le buone regole del “dolce commercio”, era una idea condivisa anche da Vladimir Lenin nel suo celebre «saggio popolare» sull’Imperialismo come fase suprema del capitalismo, pubblicato nel 1917, in cui s’intendeva offrire (come detto in prefazione alla ristampa del 1920) «il quadro complessivo dell’economia capitalistica mondiale, nelle sue reciproche relazioni internazionali, ai primordi del secolo XX, alla vigilia della prima guerra imperialistica mondiale» – in cui merita sottolineare la qualifica di “imperialistica” della guerra del 1914-18 e l’annotazione che sarebbe stata la “prima” di altre. A differenza di Mackinder, Lenin s’appoggiava sull’analisi marxiana del capitale per riconoscerne nella fase imperialistica una “mutazione genetica” dovuta al trapasso del mercato concorrenziale a monopolistico e del capitale industriale a capitale finanziario (da intendersi, in citazione da Rudolf Hilferding, come «il capitale di cui dispongono le banche ma che è impiegato dagli industriali» ). C’erano però altre tre caratteristiche proprie dell’imperialismo che andavano sottolineate, e cioè che «per il più recente capitalismo sotto il dominio dei monopoli è diventata caratteristica l’esportazione di capitale» venendo sempre più a mancare la convenienza ad un investimento redditizio in patria, da cui la spinta frenetica dei capitalisti ad occupare tutti gli spazi liberi del pianeta «non per loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione (dei capitali) li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti» ; e poi anche (in stretta concordanza con l’analisi di Mackinder) che, a forza d’esportar capitali, l’approdo ultimo dell’imperialismo sarebbe stata «la definitiva spartizione della terra, definitiva non già nel senso che sia impossibile una nuova spartizione – ché anzi nuove spartizioni sono possibili e inevitabili – ma nel senso che la politica coloniale dei paesi capitalistici ha condotto a termine l’arraffamento di terre non occupate sul nostro pianeta. Il mondo per la prima volta appare completamente ripartito, sicché in avvenire è possibile soltanto una nuova spartizione, cioè il passaggio da un “padrone” ad un altro» .
Era a questa dimensione ultimativa del mondo che si proponeva il rischio di una guerra perché la nazione che non poteva più espandersi territorialmente, avrebbero potuto farlo soltanto a spese di qualcun’altra. Era pur vero che la sostanza generale del capitale, come descritta da Marx, rimaneva una soltanto, ma essa s’incarnava in soggetti imperialistici distinti (così come il comune carattere umano s’invera nei singoli individui) che si fronteggiavano economicamente davanti alla raggiunta finitezza del mondo. Dovendosi quindi declinare l’imperialismo al plurale, in un sistema di «concorrenza di diversi imperialismi» ce ne sarebbe stato prima o poi qualcuno che avrebbe deciso di cambiare l’ordine del mondo con « attriti, conflitti e lotte nelle forme più svariate» , compresa inevitabilmente la guerra. Ecco perché che nella fase imperialistica «i capitalisti non soltanto hanno una ragione per fare la guerra, ma non possono non farla se vogliono conservare il capitalismo, poiché senza una spartizione forzata delle colonie i nuovi paesi imperialisti non possono avere quei privilegi di cui usufruiscono le potenze imperialistiche più vecchie e meno forti» . Perfino le alleanze inter-imperialiste, che alle volte potevano manifestarsi, «non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialistica, sia quello di una lega generale tra tutti i paesi imperialisti. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, sull’unico e identico terreno dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica o non pacifica della lotta» .
Ecco così rivelata la ragione della Grande Guerra Europea fragorosamente esplosa nell’agosto 1914: si trattava di una guerra imperialista nata dalle rivalità internazionali nelle zone d’attrito in Asia e in Africa, ma scaricatesi infine sul continente europeo dove da tempo avevano preso a confrontarsi i due “blocchi” contrapposti della Triplice Intesa (Russia, Francia e Gran Bretagna) e della Triplice Alleanza (Germania, Austria-Ungheria e Italia). Quando avessero fallito le acrobazie diplomatiche, i conti si sarebbero regolati a forza di uomini armati sia su quella “fronte occidentale” che opponeva la Francia alla Germania che su quella orientale che divideva Germania ed Austria-Ungheria dalla Russia (l’Italia, sul momento, si era prudentemente messa in stand-by proclamandosi neutrale).
“Old” Engels e la Grande Guerra Europea.
Nel settembre del 1914 Lenin aveva prontamente spiegato la natura della guerra appena in corso: «la guerra europea, preparata durante decenni dai governi e dai partiti borghesi di tutti i paesi, è scoppiata. L’aumento degli armamenti, l’estremo inasprimento della lotta per i mercati nella nuova fase imperialista di sviluppo del capitalismo nei paesi più avanzati, gli interessi dinastici delle monarchie più arretrate dell’Europa orientale, dovevano inevitabilmente condurre, e hanno condotto, a questa guerra… Alla socialdemocrazia incombe innanzi tutto il dovere di svelare il vero significato della guerra e di smascherare senza pietà le menzogne, i sofismi e le frasi “patriottiche” propagate dalle classi dominanti, dai grandi proprietari fondiari e dalla borghesia in difesa della guerra» . Infatti soltanto la “socialdemocrazia” (la “sinistra”, come allora la si denominava) era attrezzata a questo compito di denuncia potendo contare sulla preveggenza di Friedrich Engels, negli ultimi anni dell’Ottocento, sull’alta probabilità in avvenire di una Grande Guerra Europea.
Anche per Engels la causa originaria stava nelle trasformazioni economiche imposte al capitalismo dalla Grande Depressione che, cominciata nel maggio del 1873, doveva proseguire, con pochi e brevi intervalli di ripresa, fino al 1896. Così lo storico economico Landes l’ha poi descritta: «gli anni dal 1873 al 1896 parvero a molti contemporanei una sconcertante deviazione dall’esperienza storica… Fu la più drastica deflazione a memoria d’uomo… durante la quale i profitti si contrassero in una depressione economica che sembrava trascinarsi interminabilmente» (ebbe fine soltanto con la scoperta delle miniere d’oro in Alaska e in Transvaal che, aumentando la massa della moneta circolante, poté rovesciare l’esageratamente prolungata caduta dei prezzi). Di quella particolare congiuntura economica Engels si era fatto attento osservatore: «noi viviamo dal 1876 in una cronica situazione stagnante in tutti i rami principali dell’industria. Né viene la completa catastrofe né il lungamente bramato tempo della fioritura degli affari su cui noi credevamo di avere un diritto, tanto prima che dopo il crack» . Ma, oltre a questo, l’Inghilterra doveva anche fronteggiare la comparsa di nuovi Stati capitalisti, come la Germania, gli Stati Uniti o il Giappone, che ne insidiavano la supremazia planetaria. La loro aggressiva presenza apriva una stagione d’incertezza nell’ordine economico internazionale che avrebbe imposto una difficile risistemazione e proprio in questa crisi sociale e politica globale per Engels andava ritrovata la miccia che avrebbe potuto condurre ad una Grande Guerra Europea necessaria a far recuperare ad un qualche Stato nazionale (a scapito di altri) quei mercati di sbocco che stentavano a crescere in patria «mentre la forza produttiva cresce in proporzione geometrica» . Era infatti il bisogno d’esportare all’estero merci e capitali che costringeva ad una rivalità intercapitalistica la cui prima vittima era quella politica di “libero scambio” che veniva celebrata dagli economisti. Ed Engels a commento: «la teoria del libero scambio aveva in fondo un supposizione: che l’Inghilterra doveva divenire l’unico grande centro industriale di un mondo agricolo, ma i fatti hanno smentito completamente questa supposizione. Le condizioni della moderna industria (forza a vapore e meccanica) si possono produrre ovunque v’è combustibile e specie il carbone: Francia, Belgio, Germania, America e la Russia stessa… E quale sarà mai la conseguenza se le merci continentali e specie americane erompono in massa ognora crescente, se la parte da leone ancora toccante alle fabbriche inglesi nel mantenimento del mondo di anno in anno si rimpicciolisce? Rispondi, libero scambio, tu rimedio universale!» . A difesa delle proprie aree privilegiate di commercio ed investimento ogni Stato nazionale aveva adottato precise politiche protezionistiche che erano foriere di una, per il momento latente, conflittualità perché «questi dazi rappresentano in realtà solo degli armamenti per la definitiva campagna industriale universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale» .
Ma la conquista del mondo da parte di ciascuna nazione europea per le necessità della propria accumulazione di capitale, «siccome la terra è rotonda» , avrebbe comunque trovato un limite quando tutto il globo fosse stato “preso”. Ed Engels avvertiva nel 1885 che questo limite era pericolosamente vicino perché «i nuovi mercati divengono ogni giorno più rari… e quale sarà la fine di tutto questo? La produzione capitalistica non può divenire stabile, essa deve crescere, deve estendersi o morire,…. ma questa espansione diviene ora impossibile. La produzione capitalistica corre in un vicolo cieco» . A ritardare di toccare quel limite ogni singolo capitalismo, da solo o in alleanza con altri, avrebbe dovuto strappare ad un altro capitalismo o ad un’altra alleanza i loro mercati, ma per questo sarebbe stata necessaria una forza militare schiacciante, da cui quella corsa agli armamenti, in proporzioni mai viste prima di allora, in cui si erano buttate le grandi potenze europee: se nel 1880 le spese militari di Germania, Austria-Ungheria, Gran Bretagna, Russia, Italia e Francia erano ammontate a 132 milioni di sterline, nel 1900 erano salite a 205 milioni .
Però le armi hanno il difetto, prima o poi, di sparare. Ed Engels: «una guerra? E’ facile cominciarla, ma è estremamente difficile prevedere cosa accadrà una volta iniziata… La pace continua solo perché la tecnica degli armamenti si sviluppa di continuo e di conseguenza nessuno è preparato, e così tutti tremano al pensiero di una guerra mondiale (che è poi l’unica possibile) con effetti assolutamente incalcolabili» , «ma non appena si sparerà il primo colpo, il cavallo prenderà la mano al cavaliere e partirà di gran carriera» . E quali avrebbero potuto essere, se non spaventose, le conseguenze su di una Europa già spaccata «in due grandi campi avversi: la Russia e la Francia da una parte, la Germania e l’Austria dall’altra» a causa delle questioni irrisolte dell’Alsazia-Lorena tra Francia alla Germania e dei Balcani tra Russia e Germania?
Alla fine degli anni ’80 dell’Ottocento la prospettiva di una Grande Guerra Europea appariva ad Engels così probabile da discuterne ampiamente nella corrispondenza fino a darne un intero scenario di svolgimento possibile. Intanto, chi l’avrebbe potuta scatenare? La Russia, perché «chi oserebbe oggi addossarsi la responsabilità di provocarla, se non forse la Russia, il cui territorio, grazie alla sua enorme estensione, non può essere conquistato» ? E dove sarebbe cominciata se non nei Balcani? «La prossima guerra, se mai verrà,… avrà l’avvio nei Balcani e tutt’al più potrà rimanere per un po’ di tempo neutrale l’Inghilterra» . Da qui la sua opposizione viscerale alle rivendicazioni panslaviste che gli rimproverava Eduard Bernstein: «che la mia lettera non la convinca, poiché lei aveva già simpatia verso gli slavi meridionali “oppressi”, è assai comprensibile. Noi tutti, nella misura in cui siamo passati attraverso il liberalismo, abbiamo inizialmente condiviso queste simpatie per tutte le nazionalità “oppresse”, e io so quanto tempo e quanto studio mi è costato liberarmene definitivamente… (Ma) se un paio di Erzegovini vogliono dare il via ad una guerra mondiale che costerebbe mille volte gli uomini che popolano l’intera Erzegovina – questo secondo me non ha nulla a che fare con la politica del proletariato» .
Ma era la dimensione di massa che avrebbe preso l’evento bellico che più angustiava il vecchio Engels perché questa volta la guerra sarebbe stata combattuta in una maniera ben diversa dalle battaglie campali a ranghi serrati di un tempo che «non esistono più e chi vuol riesumarle sarà falciato dal fuoco delle armi moderne» . Erano infatti queste nuove armi (avrebbe mai immaginato le mitragliatrici e i carri armati?) a «sconvolgere tutti i calcoli:… non ancora mai state sperimentate in una guerra, non sappiamo affatto quali sarebbero gli effetti di questa rivoluzione dell’armamento sulla tattica e sul morale dei soldati» . Come che fosse, «quello che è assai probabile che accada è una guerra di posizione con esito incerto al confine francese, una guerra offensiva con conquista delle fortezze polacche al confine russo e la rivoluzione a Pietroburgo che faccia vedere all’improvviso ai signori della guerra tutto in un’altra luce. Comunque è sicuro: non ci saranno più soluzioni rapide e marce trionfali né verso Berlino né verso Parigi» . Ma pure un’altra cosa gli era sicura: che «questa guerra nella quale quindici o venti milioni di uomini armati si scannerebbero e devasterebbero l’Europa come mai non fu devastata, questa guerra o produrrebbe il trionfo immediato del socialismo oppure sconvolgerebbe talmente l’antico ordine delle cose e si lascerebbe dietro dappertutto un tale cumulo di rovine, che la vecchia società capitalistica diverrebbe più impossibile che mai» . «E tutto questo contro la piccolissima possibilità che da questa guerra accanita scaturisca una rivoluzione? Questo mi fa orrore» .
Nella sua fosca previsione però Engels andava anche oltre immaginando lo svolgimento delle operazioni militari e chi, alla fine, avrebbe vinto. Intanto la Germania sarebbe stata impegnata su due fronti, con «la Russia debole nell’attacco ma enormemente forte nella difesa e colpirla al cuore è impossibile. La Francia è forte nell’attacco, ma dopo un paio di sconfitte è resa inabile ed inoffensiva… (Di conseguenza) contenere i russi e sconfiggere i francesi: la guerra dovrà iniziare così… ma i francesi non si lasceranno sconfiggere così facilmente… Nel caso più favorevole si arriverà ad una battaglia su vari fronti, condotta con l’aiuto di sempre nuovi rinforzi, su entrambi i lati, sino all’esaurimento di una delle parti o a causa dell’attivo intervento dell’Inghilterra che, nelle condizioni date, può prendere per fame la parte contro cui si risolve ad agire» . Infatti, «se nessuna rivoluzione interrompe la guerra, se si lascia che segua il suo corso, la vittoria andrà alla parte che otterrà l’appoggio dell’Inghilterra» perché «non dimentichiamolo: nella prossima guerra chi deciderà sarà l’Inghilterra» .
Tuttavia avrebbe potuto esserci una sorpresa finale che avrebbe potuto porre termine addirittura alla centralità storica europea. Infatti, se mai «si combattesse fino alla fine senza che all’interno si muova nulla, avremo un esaurimento come l’Europa non ne conosce da 200 anni. L’industria americana vincerebbe su tutta la linea e noi saremmo di fronte all’alternativa: o regredire semplicemente all’agricoltura per uso interno (il grano americano non lascia altre possibilità), oppure una trasformazione sociale» di cui gli era impossibile immaginare le coordinate . Così, nello scontro imperialistico fra Gran Bretagna e Germania, se la Germania avrebbe perso la guerra, la Gran Bretagna avrebbe potuto perdere la pace a pro’ di quel “terzo incomodo” che erano gli Stati Uniti d’America che Engels era andato a visitare nel 1888 tornandone impressionato perché «se gli americani incominciano, lo faranno con una energia e una violenza a paragone delle quali noi in Europa saremo come bambini» .
Il capitale è “uno”, ma gli Stati sono tanti: da Bucharin a Kautsky.
Quando la Grande Guerra in Europa scoppiò, tutto andò come Engels aveva previsto. L’occasione contingente fu a Sarajevo, nei Balcani, il 28 giugno 1914 che provocò l’ultimatum austro-ungarico alla Serbia ed infine la mobilitazione dell’esercito russo al confine. Seguirono dichiarazioni di guerra a ripetizione, fino a quello della Gran Bretagna alla Germania (il 4 agosto) che, a dar retta alla previsione engelsiana, ipotecò la sorte del conflitto: avrebbe vinto la Triplice Intesa di Francia, Russia e Inghilterra, a cui nel 1915 s’accodò l’Italia cambiando agilmente di fronte. Però Engels avrebbe mai immaginato che, per chiudere la partita con gli Imperi Centrali, ci sarebbero voluti 51 mesi d’«inutile strage» (come la maledisse papa Benedetto XIV)?
E tuttavia strage “inutile” non fu se, ricondotta alla sua “ragion economica, servì alle nazioni vincitrici per ridefinire i propri ambiti d’espansione imperialistica nel mondo. Ristampando nel 1920 il suo Imperialismo Lenin avrebbe spiegato al lettore che «nell’opuscolo è dimostrato che la guerra del 1914-18 fu imperialistica (cioè di usurpazione, di rapina, di brigantaggio) da ambo le parti, che si trattò di un guerra per la spartizione del mondo, per una suddivisione e nuova ripartizione delle colonie, delle “sfere di influenza” del capitale finanziario, e via dicendo. La dimostrazione del vero carattere sociale o, più esattamente, classista della guerra, non è contenuta, naturalmente, nella storia diplomatica della medesima, ma nell’analisi della situazione oggettiva delle classi dominanti in tutti gli Stati che vi parteciparono» . E che fosse lotta per la spartizione di un “bottino” lo prova il caso del Giappone che il 23 agosto 1914, su istigazione britannica, dichiarò anch’esso guerra alla Germania solo per impadronirsi di tutte le colonie tedesche nel Pacifico!
Sul finire del 1915 spettò a Nikolaj Bucharin approfondire le cause della Grande Guerra in corso in L’economia mondiale e l’imperialismo. Che fosse una guerra imperialista era per lui fuor di dubbio, ma essa era motivata in specifico dalla contraddizione tra le due tendenze alla internazionalizzazione del capitale e alla nazionalizzazione degli interessi economici che non erano affatto convergenti. Certamente al livello del mercato mondiale «il capitale si internazionalizza: si riversa all’estero nelle fabbriche e nelle miniere, nelle piantagioni e nelle ferrovie, nelle linee di navigazione e nelle banche, cresce di volume, rimette parte del plusvalore in patria, dove questa parte può iniziare il suo movimento autonomo, accumula un’altra sua parte, allarga ancora ed ancora la sfera della sua applicazione, crea una rete sempre più fitta di subordinazione internazionale» . Ma questa era soltanto la metà del processo perché il capitale esportato all’estero doveva essere difeso dagli appetiti altrui che potevano insidiarlo. Ecco perché alla globalizzazione dei mercati s’accompagnava necessariamente la «nazionalizzazione degli interessi capitalistici» allo scopo di garantirsi la “chiusura” delle proprie aree d’investimento con ogni mezzo: dalle pratiche monopolistiche alle politiche doganali ed anche, se necessario, con il «pugno corazzato del potere statale» . Era per questo che «la capacità di lotta sul mercato mondiale dipende in tal modo dalla forza e dalla compattezza della “nazione”, delle sue risorse finanziarie e militari» . E dalla sua contraddizione con l’internazionalizzazione dei mercati scaturiva la guerra, manifestazione ultima dell’ostilità dei singoli imperialismi organizzati «nei limiti delle unità statali», essendo «la coesione statale solo l’espressione della coesione economica» . «Agenti sociali di questa contraddizione sono i diversi gruppi della borghesia organizzati in Stati con i loro interessi contraddittori,… compatti gruppi “nazionali” armati dalla testa ai piedi e pronti a gettarsi l’uno sull’altro ad ogni momento» .
Ora si può anche discutere sulla definizione buchariniana di questa union sacréé nazionale di economia e politica come di un «trust capitalistico di Stato» , rispetto al quale il Parlamento servirebbe soltanto «come decorazione dove vengono fatte passare le decisioni preparate in precedenza dalle organizzazioni imprenditoriali e dove la volontà collettiva di tutta la borghesia compatta trova semplicemente la sua consacrazione formale» , che può sembrare troppo semplicistica. Resta però il fatto che, messa in questi termini, l’unità d’intenti capitalistica mondiale appariva una cosa ben fragile davanti a un «capitale frazionato in gruppi “nazionali”» impegnati a costituire, difendere ed allargare i propri spazi economici vitali. Per questo a Bucharin pareva assurdo qualsiasi programma di disarmo: «per quei trusts capitalistici di Stato che occupano le prime posizioni sul mercato mondiale… balena la possibilità di soggiogare tutto il mondo, campo di sfruttamento di grandezza mai vista… e la borghesia dovrebbe essere disposta a barattare questo “elevato” ideale per il piatto di lenticchie dei “vantaggi” del disarmo! E dov’è la garanzia per quel trust capitalistico di Stato che un qualche suo perfido rivale, anche dopo gli impegni e le “garanzie” formali, non cominci di nuovo la politica di prima?… Basta che un trust capitalistico di Stato forte, per esempio l’America, si muova contro gli altri, anche se questi sono “uniti,” perché tutti gli “accordi” vadano in pezzi» .
Altrettanto «deviazione opportunistica» gli sembrava l’idea, espressa da Karl Kautsky in una serie di articoli sulla “Neue Zeit” del 1915, di un possibile risultato della Grande Guerra in direzione di una «politica ultra-imperialista la quale, al posto della lotta fra i vari capitalismi finanziari nazionali instauri lo sfruttamento comune del mondo da parte del capitale finanziario internazionale riunito» . Per Kautsky il trauma della guerra europea avrebbe potuto «condurre al rafforzamento dei deboli germi dell’ultra-imperialismo», affrettandone uno sviluppo «che in tempo di pace si sarebbe dovuto attendere lungamente» ed aprendo così «un’era di nuove speranze e di attese nell’orbita del capitalismo» . Ed i lavoratori? Avrebbero dovuto sostenere questo possibile sviluppo portandosi sulle posizioni di quella “borghesia pacifista” composta da «piccoli borghesi, piccoli contadini e persino molti capitalisti e intellettuali non legati all’imperialismo da interessi più forti dei danni che questi strati soffrono a causa della guerra e degli armamenti» . Ma quando mai, doveva insorgere Lenin nello stesso 1915 discutendo del Fallimento della II Internazionale! «Kautsky è riuscito a prostituire il marxismo in modo inaudito e a trasformarsi in un prete vero e proprio… (che) consola le masse oppresse col quadro lusinghiero di questo “ultra-imperialismo”, pur non osando dire se esso è “realizzabile”! Feuerbach mostrava giustamente a coloro che difendevano la religione adducendo che essa consola l’uomo, il carattere reazionario della consolazione (perché) chi consola lo schiavo, invece di spingerlo alla ribellione contro la schiavitù, aiuta i proprietari di schiavi» .
Eppure, per dare proprio a ciascuno il suo, va detto che lo stesso Kautsky era in forte dubbio sulla riuscita di quel suo “ultra-imperialismo” per il quale, scriveva, «non si hanno ancora premesse sufficienti». In alternativa egli prevedeva perciò una ben più tragica uscita dalla Grande Guerra che avrebbe potuto «far divampare al più alto grado l’odio nazionale anche fra i magnati del capitale finanziario, intensificando la gara degli armamenti e rendendo inevitabile una seconda guerra mondiale» . Ad evitarla sarebbe forse bastato disarmare l’Europa? Niente affatto, tagliava corto Bucharin, perché «finita questa guerra nuovi problemi dovranno essere risolti con la spada… e se mai si unirà tutta l’Europa, ciò non significherà affatto il “disarmo”. Ciò significherà un balzo in avanti mai visto del militarismo, poiché sarà allora il turno della lotta con l’America e con l’Asia» .
La pace con gli “Stati Uniti d’Europa”? Da Trotskij a Lenin.
Ad evocare una “Europa unita” quale unica salvaguardia della pace per gli anni a venire si era provato Leon Trotskij con lo scritto La guerra e l’Internazionale, tempestivamente pubblicato nell’ottobre 1914. Alle spalle della sua riflessione stava soprattutto il fallimento della Seconda Internazionale che, dopo aver minacciato nei suoi Congressi (soprattutto a Stoccarda nel 1907 e a Basilea nel 1912) lo “sciopero generale e militare” nel caso di una guerra imperialista, all’atto pratico si era tirata indietro lasciando che ciascun partito socialdemocratico facesse come gli pareva, con i tedeschi e i francesi subito accorsi a votare i “crediti di guerra”. Ma non bisognava difendersi dall’aggressione avversaria? E comunque, a giustificazione del “tradimento”, non c’erano le parole del vecchio Engels in difesa della “sua” patria tedesca? «Se la Francia e la Russia alleate attaccassero la Germania, questa difenderebbe con tutte le sue forze la sua esistenza nazionale, alla quale i socialisti tedeschi sono interessati ancor più della borghesia, e i socialisti combatterebbero fino all’ultimo uomo» . La sua avversione allo zarismo era tale da fargli scrivere che, «se la Russia dà inizio alla guerra, ci batteremo contro i russi e i loro alleati, chiunque essi siano» perché qui «si tratta della difesa della nazione e, per noi, del consolidarsi della nostra posizione e dei possibili sviluppi futuri» .
Come si vede, la brutta parola “nazione” era già stata pronunciata dal vecchio amico di Marx e fu così che nell’agosto del 1914 l’“amor di patrie” (da declinarsi doverosamente al plurale) fece aggio sull’internazionalismo di classe, mentre i confini di Stato si alzarono a delimitare non soltanto l’ambito dei territori in guerra, ma i singoli distaccamenti di lavoratori che si riconoscevano più affini ai propri capitalisti che agli operai stranieri. Era su questa fallimento drammatico dello spirito internazionalista che interveniva Trotskij denunciando, oltre la “nazionalizzazione” degli interessi capitalistici, la nazionalizzazione della stessa coscienza di classe. Sebbene «la politica dell’imperialismo dimostri inanzi tutto che i vecchi Stati nazionali creatisi in Europa in seguito alle rivoluzioni e alle guerre… sono superati e si sono trasformati in catene insopportabili per lo sviluppo ulteriore della forze produttive,… il nazionalismo può continuare a sussistere come fattore culturale, ideologico e psicologico» infettando anche il movimento operaio. A dispetto del fatto che la guerra appena scoppiata avesse subito messo in luce «il suo reale contenuto di una lotta a morte tra Germania ed Inghilterra… per una nuova divisione imperialistica dei popoli della terra» , i partiti socialisti, che «erano partiti nazionali,… sono accorsi in aiuto delle strutture statali conservatrici» trascinando con sé le masse proletarie delle singole nazioni in guerra in un conflitto che per loro era fratricida. Da qui la necessità politica urgente di fargli ritrovare una unità di coscienza che superasse le frontiere statali, il che per Trotskij si poteva guadagnare dando loro «una nuova patria, assai più potente e assai più stabile: gli Stati Uniti d’Europa come fase transitoria verso gli Stati Uniti del Mondo» .
La proposta, portata alla Conferenza delle Sezioni all’Estero del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, venne presa in considerazione, ma solo dopo che anche «il lato economico della questione» fosse stato considerato. A ciò provvide Lenin in una nota dell’agosto 1915: Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, stroncandola però senza remissione. «Assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica», gli Stati Uniti d’Europa, quando esaminati dal punto di vista di classe, «dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”», in mancanza di una preventiva rivoluzione socialista non potevano che essere giudicati «o impossibili o reazionari» .
Perché impossibili? Perché in Europa gli Stati in grado di contendersi gli spazi d’esportazione del capitale (Gran Bretagna, Francia, Germania e Russia), finita ormai la “coesistenza pacifica” per l’esaurimento delle “terre libere”, non potevano avere «altro principio di spartizione che la forza… e per mettere a prova la forza reale di uno Stato capitalista non c’è altro mezzo che la guerra» . Per questo, a guerra terminata, sarebbero risorte comunque le rivalità, e non solo tra vincitori e vinti, ma pure tra i vincitori. Questa volta però avrebbe potuto esserci una limitazione alla violenza reciproca provocata dall’entrata in scena del “terzo incomodo” degli Stati Uniti d’America. Per fargli fronte le grandi potenze europee avrebbero potuto convenire di darsi una forma statale comune, ma «sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, questi Stati Uniti d’Europa significherebbero soltanto l’organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell’America» . Per questa ragione, se mai venissero realizzati, essi sarebbero stati reazionari e rispetto ad essi lavoratori avrebbero dovuto mantenere tutta la propria autonomia di classe. Ma come che fosse, erano queste le ragioni per cui Lenin ne poteva concludere che «la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è sbagliata» .
Ma, se mai fossero diventati possibili, come muoversi nei loro confronti? Se Lenin nulla ha detto al riguardo, lo si può però arguire per analogia con quanto indicato a proposito del comportamento da tenere verso la guerra,m rispetto alla quale «una classe rivoluzionaria non può, durante una guerra reazionaria, non augurarsi la sconfitta del proprio governo» . E quindi altrettanto avrebbe dovuto valere davanti agli Stati Uniti d’Europa, così che «l’unica politica di rottura – non a parole – e di riconoscimento della lotta di classe è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli. Ma non si può ottenere questo, non si può tendere a questo senza augurarsi la disfatta del proprio governo, senza cooperare a tale disfatta» .
(*) Il Professor Giorgio Gattei insegna Economia all’Università di Bologna.