I miei bambini
Da Gabriele Damiani
Sua figlia si addormentò. Le vedeva il visino pallido adagiato sul cuscino. La bambina aveva dodici anni e la sorte era stata cattiva con lei: poliomielite.Maria guardò l’ora - le cinque - e pensò che in quel momento suo marito usciva dalla fabbrica, giù al paese. Pensò che avrebbe dovuto cucinarsi da sé o andare in trattoria. Lei invece quella sera sarebbe tornata alla pensione e non avrebbe cenato. Non ne aveva voglia.Di nuovo le risuonarono nella mente le parole del primario: «Sua figlia rimarrà zoppa. Inutile farsi illusioni».E quando lei si era accasciata sulla sedia e aveva pianto, il primario aveva aggiunto che gli dispiaceva e poi era andato via con il suo assistente. Era stata una notizia tremenda e le sarebbe piaciuto dimenticarla e credere che il male non avrebbe lasciato tracce sul corpo di sua figlia.*La signora bionda entrò in camera, salutò e si mise a sedere vicino al letto del bambino. Il bambino poteva avere dieci anni, o anche meno. Aveva gli occhietti celesti e i capelli ricci. La signora bionda, che era sua madre, aveva portato una busta di plastica. Nella busta c’erano succhi di frutta, cioccolatini, biscotti, che sistemò sul comodino.Maria osservò la donna. Era avvenente, aveva gli occhi verdi e indossava una pelliccia. Era gentile e veniva a trovare il figlio ogni giorno, ma non rimaneva più di mezz’ora. A un certo punto lanciava un’occhiata all’orologio e diceva che era tardi e che aveva da fare. Dava un bacio al figlio. Salutava Maria, la bambina e usciva.Il ragazzino frignava per qualche minuto, ma poi si rassegnava. Passava il tempo leggendo i fumetti o parlando da solo. Si divertiva con alcuni suoi amici immaginari - uno di nome Flic e un tale di nome Floc - e faceva molte cose con loro. A volte pilotavano aeroplani da guerra, o corteggiavano bambine celebri per la loro bellezza, o si davano alla pesca di squali al largo delle coste australiane. Era un bambino intelligente, era un bambino con molta fantasia.La madre, oltre a essere bella, era sempre elegante. Quando parlava era un piacere ascoltarne la voce melodiosa. Si truccava con discrezione e sorrideva con facilità. Un sorriso breve e nervoso.Maria non apprezzava il modo in cui si comportava con il figlio. Era come se non le importasse che il bambino stava lì, in una clinica specializzata nella cura di quell’orribile malattia dal nome flautato.La signora si rivolse a Maria, additando il letto della bambina.«Dorme?».«Sì».«È proprio un tesoro. Questo birichino invece…».«Perché? È tanto buono».«Buono? Ma se appena provo ad allontanarmi», scherzò, «attacca subito con le lagne».«La vuole avere vicina».«Già, tutti mi vogliono avere vicina. Sì, anche gli altri. I miei bambini che sono a casa, voglio dire».La signora scartò un cioccolatino e lo porse al figlio e Maria disse fra sé che un bambino lasciato solo tutto il giorno aveva il diritto di volere la mamma accanto. Quel tipo di donne Maria non le capiva. Non capiva come si potesse vivere con l’anima in pace e un figlio poliomielitico all’ospedale, come si potesse desiderare di apparire belle ed eleganti e nello stesso tempo avere un figlio che rischia di rimanere storpio.Il silenzio era più fastidioso della conversazione e Maria domandò all’altra quanti anni avessero i suoi figli.«La prima, è una femminuccia, ne ha tredici. Flavio ne ha undici, due in più di questo birichino qui».«Sono grandicelli».«Sì. Vorrei che anche lui», e fece un cenno verso il letto dove suo figlio sfogliava un album di Paperon de’ Paperoni, «stesse a casa, insieme ai fratelli. Li avrei tutti e tre sotto gli occhi e sarei più tranquilla».«Ma deve essere curato. Per mia figlia non ci sono più speranze, l’ha detto oggi il primario, ma per suo figlio è…».«Oh, mi dispiace. Peccato, una bambina così graziosa».«Niente da fare, purtroppo. Ma per suo figlio è diverso, in questa clinica hanno risolto casi gravissimi, ho sentito».«Io non ho fiducia, non ho più fiducia. Prima i medici mi dicono qualcosa di definitivo e meglio è. Se fosse stato per me non l’avrei neanche ricoverato. È mio marito quello che crede nei miracoli, io ormai…». Si morse il labbro e scosse lievemente la testa. «Mi dispiace per sua figlia. Peccato, è così carina».«Grazie. Mi ha fatto male sapere che tutto era inutile, che tutto era…», e Maria alzò sconsolata le mani dal grembo.«Oh, sì, l’immagino. Peccato, quanto mi dispiace».«Ma lei perché dice così? Suo marito ha ragione. Io non mi pento di essermi illusa. La speranza aiuta».«Al mio posto non lo penserebbe», disse la donna, prendendo la pelliccia dalla sedia.Maria si arrabbiò un po’. “Al mio posto non lo penserebbe. Di’ piuttosto che non t’importa niente di tuo marito e di questo povero piccolo. Di’ piuttosto che devi correre a un ricevimento, o a una sfilata di moda, o al teatro”.«Ora devo andare. Tu fa’ il bravo e non disturbare la signora», diceva la bionda al bambino e gli sbaciucchiava le guance.«Ma no, mamma, resta un altro poco».«Devo andare, caro. Non aver paura. Se hai bisogno di qualcosa, suona all’infermiera. Domani verrà anche papà e dirà al dottore che deve guarirti presto presto e tu tornerai a casa con Marta e Flavio. Va bene? Ma ora fa’ il bravo e sta’ quieto». Lo baciò ancora e si rivolse a Maria, per salutarla: «Buona sera, signora, ci vediamo domani. Io devo proprio andare, a casa ho gli altri due che mi aspettano. Sono pure loro poliomielitici».*Quella notte, nella camera della pensioncina, Maria pianse. Anche suo marito, sul letto della casa solitaria, giù al paese, pianse. Maria gli aveva detto per telefono come stavano le cose.Maria, quella notte, ripensò a lungo alla signora bionda e ai suoi figli poliomielitici. Avrebbe voluto avere un po’ del suo coraggio.
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