A 9 anni imparai a odiare. Prima di allora, d’altronde e per fortuna, non che ce ne fosse stato bisogno. Un bambino difficilmente arrivare a odiare. L’odio è il sentimento che si prova di fronte a eventi incontrollabili e ineluttabili. Odi il lavoro perché non fa per te ma d’altronde devi portare il pane a casa e non puoi farci niente. Odi la tua ex perché ti ha fatto le corna e non puoi farci niente. Odi tua moglie perché è tua moglie e non puoi farci niente. A meno di divorziare, ma che sbattimento. Quindi è come non poterci fare niente comunque.
A 9 anni, un bambino usa la fantasia. Non vorresti alzarti il mattino, ma fantastichi che un giorno sarai un nababbo ricco e che potrai svegliarti quando vuoi. Non vorresti studiare e non ti piace la maestra, ma fantastichi che un giorno verranno a consegnarti a casa la lauree ad honorem bussandoti alla porta e chiedendoti scusa per i giorni che ti hanno fatto perdere. Poi, a forza di “stai con i piedi per terra” e “hai la testa sempre fra le nuvole, sveglia!”, disimpari a sognare e chiudi questa valvola di sfogo. A 9 anni vedi l’odio come il sentimento da adulto per eccellenza. La bomba atomica che gli adulti sganciano quando sono impotenti, colmi di rabbia, incompiuti, depressi e violenti. D’altronde, cosa sono le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki se non le espressioni estreme di odio di uomini adulti contro altri uomini adulti?
A 9 anni odiai Zenga. Vincevamo 1-0 contro l’Argentina in semifinale. Doveva starsene buono buono fra i pali aspettando il 90esimo. E invece cosa mi fa? Esce a valanga su Caniggia (Caniggia!) provocando il pareggio e facendoci andare ai supplementari. Quando poi Maradona insacca l’ultimo rigore mandandoci a casa, mi ricordi che guardai mio padre. Con malcelata inquietudine, immagino di aver avuto quel tipico di sguardo da bambino che si aspetta che il padre gli dica “Ehi, ci penso io”. Odiai mio padre. Come poteva non fare niente? E come poteva accettare di non poter far niente con tranquillità senza impazzire dal dolore? Mi lasciai cadere sul letto a peso morto e, senza accorgermene, piansi. A quel punto, mi sfogai come un bimbo di 9 anni che, seconda lezione, capisce che esiste la sconfitta.
Al diavolo. Odiai Zenga e i suoi compagni. Odiai il mio esercito di pappamolla, perdenti e rammolliti. Guardai con la coda dell’occhio Italia-Inghilterra e accolsi con freddezza il nostro terzo, grigio, scadente terzo posto. Decisi che la mia carriera da tifosi sarebbe finita lì. Troppa fatica. Ma ricordo quel tabellone dello stadio inquadrato dalle telecamere con su scritto “Arrivederci Italia ’90. Welcome Usa ’94″. Ehi, mi dissi, vuol dire che la giostra riparte. E magari, boh, vinciamo. La fiammella era accesa. E non si sarebbe spenta sotto la pioggia delle disillusioni e delle sconfitte.
Italia ’90 insegnò molto a quel bimbo di 9 anni. Che c’era una vita da vivere e tante battaglie da combattere. Ma soprattutto gli fece conoscere il giocattolo più bello del mondo. Il calcio.
Che 4 anni dopo, negli Stati Uniti, mi ritrovò alle porte dell’adolescenza.