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I MIGLIORI DISCHI DEL 2015 a cura di Antonio Bianchetti

Creato il 19 gennaio 2016 da Wsf

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Eccoci qua ogni fine dell’anno a scegliere i migliori dischi pubblicati nel corso di questo 2015 e che rappresentano le mie scelte personali. Qualcuno dice sempre che questo è un gioco fine a stesso perché ognuno di noi viaggia sempre verso le proprie latitudini, ma tant’è, a me personalmente il gioco piace, perché quando seguivo le riviste specializzate analizzavo sempre degli artisti che mi erano sfuggiti durante il corso dei mesi, e che riscoprivo proprio con queste classifiche riepilogative. Sostanzialmente mi sono mosso come sempre fra il rock e i suoi dintorni, sconfinando ogni tanto in territori altri e rientrando come sempre nelle mie stanze, perché vivere di musica, è un’esperienza bellissima in cui, forza, ritmi, esultanza, furore, estasi, abbandono e poesia, rappresentano tutte le sfaccettature migliori della vita e proprio per questo, bisogna goderle nel migliore dei modi.

Questi sono i miei top 20

VIET CONG –VietCong
A PLACE TO BURY STRANGERS – Transfixiation
LAURA MARLING – Short Movie
NADINE SHAH – Fast Food
IOSONOUNCANE – Die
ALGIERS – Algiers
SACRI MONTI – Sacri monti
IBEYI – Ibeyi
MBONGWANA STAR – From Kinshasa
ALABAMA SHAKES – Sound & Color
PORCUPINE TREE – Anestetize
BENJAMIN CLEMENTINE – At Least For Now
THE JON SPENCER BLUES EXPLOSION – Freedom Tower / No Wave Dance Party 2015
JOHN ZORN – The True Discoveries Of Witches And Demos
GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR – Asunder Sweet And Other Distress
NILS ØKLAND / PER STEINARD LIE / ØRJAN HAALAND – Lumen drones
SARAH NEUFELD & COLIN STETSON – NeverWere The Way SheWas
MATANA ROBERTS – Coin Coin Chapter Three: River Run Thee
ANIMATION – Machine Language
KAMASI WASHINGTON – The Epic

Seguono le schede singole di ogni album

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VIET CONG
“VietCong”

Al di là del bellissimo nome di questo ensemble canadese, che rappresenta, senza scomodare troppo l’ideologia, la resistenza contro l’imperialismo, ci troviamo di fronte a un lavoro che viaggia su diversi piani e con risultati altalenanti, proprio perché la viscerale anima che ci riporta ai Joy Division, ai Bahuaus, ai Cure, o alle ricerche sonore del kraut-rock tipo i Neu!, è qui rimodulata dentro a un sound moderno più vicino a gruppi come gli Oneida o a esperienze musicali come quella dei Sunset Rubdown di Spencer Krug, e risulta costruita dentro a un sound di non facile accesso al primo ascolto. Ritmi sincopati, distorsioni, sfumature industrial, deviazioni rumoristiche dentro a un cantato quasi ovattato, robotico in alcuni casi, con la sovrapposizione di chitarre taglienti e pulite nello stesso tempo, ricercano e vogliono trasmettere tutto il disagio di una generazione coinvolta in una crisi senza fine, e che, con l’ultima traccia: “Death”, sputano in faccia senza remissione questa rabbia e questa voglia di ribellione com’è successo esattamente cinquant’anni fa. Ascoltatela e rimarrete coinvolti anche voi…
Granitico!

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A PLACE TO BURY STRANGERS
“Transfixiation”

“Un luogo dove seppellire stranieri”, potrebbe essere questa la traduzione del nome di questa band newyorkese che da diversi anni sta incendiando le notti della Grande Mela, anche se, metaforicamente, il suo significato si riferisce al luogo dov’è stata data sepoltura a Giuda, o perlomeno, dove lo potremmo cercare. Di fuoco parlavamo, ebbene, le fiamme che scaturiscono dalle loro performance, sempre innescate da uno shoegazeindiavolato e torrido quanto basta per accendere la miccia di un post-noise deviato e accattivante, malato e violento nello stesso tempo, saranno difficili da dimenticare, perché, l’arroganza del rock in questo casoincute veramente timore. È come se i My Bloody Valentine avessero assoldato membri dei Wire, dei Ride e dei Black Angels per unirsi insieme in un’apocalittica orgia iconoclasta, dove l’unico desiderio è trasmettere soltanto un’idea di paura. Transfixiationè tutto questo e altro ancora, perché, se, per placare il dolore di queste ustioni bisogna irrompere con un diluvio sonoro, allora non ci rimane che aspettare le conseguenze del fuoco prima e dell’acqua dopo. Chi ne uscirà vivo? Non lo so, questo dipende da noi e dalla nostra voglia di reazione, dalla nostra voglia di cercare un’altra vita.
A proposito, parlando di cimiteri, avete iniziato a scavarvi la fossa?
Devastante!

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LAURA MARLING
“Short Movie”

Questo quinto album della cantautrice d’oltremanica è sicuramente, oltre a quello di più facile accesso,quello in cui la meraviglia di queste tredici tracce, esaltano l’ascoltatore all’interno di sguardi lirici di rara bellezza. Una serie di “corti” cinematografici, dove le microstorie emergono all’interno di melodie avvolgenti, proprio perché lo stupore insito nel desiderio profondo di vivere l’amore nel senso più vero, rappresenta quello che per molti è una risoluzione banale, ma che invero rimanga alla base della nostra vita, e che in senso traslato diventa il filtro dell’eterna giovinezza. Poi, le consuetudini della quotidianità, innescano tutte le variabili per inventare o trasmettere dei testi in cui la poesia emerge delicata e prepotente come aria da respirare: necessità che non può mancare in ognuno di noi.
Il folk si sa, non è mai stato un territorio facile, ma questa bellissima inglesina ce lo fa desiderare come una novella Joni Mitchell che, armata solamente di voce e chitarra acustica con qualche arrangiamento scarno e delicato, rivive in noi con la consapevolezza che la classe è una dote appartenente a quelli veramente bravi.
Splendido!

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NADINE SHAH
“Fast Food”

Dopo il suo interessante esordio discografico avvenuto nel 2013: “Love Your Dum and Mad”, preceduto solamente da due EP, questa interprete proveniente dallo Yorkshire, si ripete magistralmente con un album altrettanto valido e sorprendente. È raro trovare oggigiornouna voce che si allontana dal coro con un prodotto così atipico, intelligente, moderno ed originale, il quale, con delle solide basi dark-blues, si allarga a degli orizzonti dove il confine del pop viene solamente accarezzato, per poi rientrare dentro a sequenze melodiche ipnotiche e trasversali, in cui, l’uso della voce e degli arrangiamenti, si adattano a sequenze teatrali con soluzioni alternative, come se l’impatto scenografico fosse una caratteristica delle sue storie. Anche la strumentazione non ha niente di usuale, talmente è interessante la ricerca della produzione che esce da ogni canone stabilito, senza eccessi sperimentali, e proprio per questo, da elogiare per l’evolversi di un’innovazione che non altera la bellezza dell’ascolto.
Io non so se i paragoni con PJ Harvey siano calzanti, di certo è che questa giovane cantautrice ha intrapreso una strada sicuramente di alta qualità, e il tempo le darà ragione.
Straordinario!

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IOSONOUNCANE
“Die”

Fra i prodotti dell’industria discografica nostrana, questo secondo lavoro di Jacopo Incani, raggiunge vette notevoli, specialmente dopo quella Macarena su Roma che gli ha dato una buona notorietà, e che era, a tutti gli effetti, un esempio di come con delle ottime idee si possa elaborare un prodotto artisticamente notevole, e il pezzo Il corpo del reato, ne era un esempio lampante. Ora, con questo Die (che in sardo vuol dire “giorno”) si è superato, riuscendo a far coesistere musica e letteratura, racconto esistenziale e poesia, storie del nostro tempo e sperimentazione sonora. All’interno di un cantautorato sicuramente moderno erano anni che non si ascoltava un concept-album così perfettamente riuscito, dove la storia di due persone che forse non s’incontreranno mai, sintetizza l’eterna lotta fra la natura e l’industrializzazione dei nostri sentimenti, mentre la musica ne esce vittoriosa, esultante, catartica, quasi ad elevarsi ad unica risposta salvifica. È incredibile come la perfezione possa emergere dentro ad una ricerca linguistica e sonora rara nel suo genere, in cui, l’ispirazione e l’espressività diventano un mantra da attraversare insieme allo spirito che appartiene a tutti noi. Arrangiamenti sintetici, chitarre che si mutano in cori virtuali, voci appartenenti a un futuro già intorno a noi, contrappunti e ritmi dispari che alternano elegia e ossessione, resistenza e speranza. Alla fine emerge un racconto che diventa esso stesso un poema sonoro avvolgente, come se un corpo costruito sulle note, fosse la creazione perfetta dove coesistono tragedia e vitalità, perché in fondo, anche noi siamo nati dalle cruenti onde del mare, dal quieto alternarsi delle maree.
Capolavoro!

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ALGIERS
“Algiers”

Il folgorante esordio di questo trio di Atlanta, rappresenta una delle cose più belle ascoltate nel corso di quest’anno, come se l’anima distopica che contraddistingue il loro sound fosse una colata lavica sopra un secolo di musica per rifonderlo insieme. Questi ragazzi hanno avuto l’intelligenza di assorbire i canti negroidi dei vecchi blues, per unirli a un’elettronica dove Alan Vega si troverebbe a suo agio, come se gli echi dei Suicide, la rabbia deiBadSeeds,la veemenza degli MC5, la potente voce di Nina Simone, le marce di protesta degli anni ’60 e le rivolte dei ghetti neri, creassero un tappeto sonoro intriso di un punk-rock spigoloso e distorto quanto basta per urlare in faccia alla società questa loro idea di musica, questa loro quotidiana ribellione. D’altronde, quando si cresce a pane e gospel, non si vuole più ascoltare i sermoni delle chiese come speranza salvifica, ma si incitano i fedeli a risollevarsi dall’apatia per combattere attivamente il degrado dilagante. Le prediche sono intrise di nuovi vangeli apocrifi, dove Carlo Marx e i Public Enemy si fanno sentire con delle parabole nuove, dove non si cade nella semplificazione della canzone di protesta, ma al contrario s’innesca un ritmico delirio immaginifico, che via via sale abbracciando l’enfasi, ma che ritorna sui suoi passi riprendendo per mano l’attualità attraverso un sali e scendi vibrante e spigoloso, potente e lacerato. La salvezza è probabilmente la meta di queste tracce proclamata con passione, ma se i battimani degli schiavi di fine ‘800 ci incitano ad alzarci dalle sedie (per non dire poltrone) con la consapevolezza di alzare anche la voce, allora è vero che la potenza della musica può davvero cambiare il mondo.
Viscerale!

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SACRI MONTI
“Sacri Monti”

Se in rete digitate il nome di questa nuova band californiana, vi usciranno tutti i santuari italiani sparsi per la nostra penisola; per questo motivo abbiate l’accortezza di aggiungere la dicitura psycho-heavy rock e scompariranno in un solo momento tutti i santi e le varie madonne che ci hanno propinato fin da piccoli. Per fortuna poi siamo cresciuti, perché quest’apocalisse sonora è la vera estasi che ci fa delirare, è la preghiera forsennata che ci fa sentire veramente invasati, è l’adorazione autentica verso le sfumature del firmamento. Certo… i colori delle nuvole saranno impazziti fra milioni di colori lisergici, la psichedelia farà da scenografia alla nostra ascensione verso la gloria dei cieli e ci sentiremo adorati come i creatori e i fautori del giudizio universale… Tranquili, non sono impazzito, sto solamente ascoltando questo nuovo gruppo formatosi dall’unione dei membri dei Radio Moskow e dei Joy, diventando una delle più belle sorprese ascoltate quest’anno. Chitarre sovrapposte e lancinanti, tessuti sonori decisamente sixty, tastiere dinamiche intrise di atmosfere seventy, riff taglienti sparati oltre il volume sopportabile,sovrapposizioni di suoni contaminati con l’acido, cavalcate infinite dove gli strumenti si integrano perfettamente formando un’atmosfera sulfurea e allucinata: dal paradiso all’inferno senza biglietto di ritorno, perché la santità non ci appartiene. Noi siamo solamente dei peccatori, e come tali dobbiamo pagare tutte le nostre nefandezze, altro che adorazione, altro che ex-voti; non ci servono gli dei, non ci servono le indulgenze; ci basta solamente questo tipo di musica per scontare ogni tipo di pena, per sopportare ogni girone dantesco dove verremo collocati. Poi, se siamo abituati ad ascoltare gli Harsh Toke, i WoFat, gli Eathless, i Siena Root, i Graveyard, la Valley of the Snake, la Black Magick Boogieland, o meglio ancora i Led Zeppelin, i Deep Purple e la Jimi Hendrix Experience, allora, potete mandare affanculo anche Lucifero, perché bruciare per l’eternità non vi farà per niente paura.
Infuocato!

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IBEYI
“Ibeyi”

Altro album d’esordio di queste due gemelle franco-cubane. Naomi e Liza-Kaindè, figlie del percussionista Anga Diaz, scomparso quando loro avevano soltanto undici anni, ma che ora, alla giovane età di 19 anni, incidono un disco con una maturità sorprendente. Cresciute dalla madre educandole alla cultura Yoruba: una lingua derivativa dall’Africa orientale attraverso la tratta degli schiavi, e approdata a Cuba agli inizi del 1700, apprendono anche l’uso di strumentazioni etniche semplici quanto efficaci per la loro maturazione artistica, legata indissolubilmente alle proprie radici. E sono proprio le radici negroidi a emergere in maniera strisciante, lasciando nell’ascoltatore un senso ancestrale dove il passato emerge per incontrarsi con un futuro che ci aspetta: fusioni elettroniche, spruzzate di jazz, folk originario della loro regione, influenze parigine, ritmi cubani, preghiere rituali e un cantato a cappella minimale quanto efficace nell’infondere un senso di meraviglia e di attesa. “Ibeyi” nel loro idioma significa proprio “gemelli”, quasi ad affermare il forte legame familiare che lega non tanto la loro appartenenza consanguinea ma tutta l’origine della loro razza, sempre sottomessa dasecoli; inoltre, con questo termine si raffigura anche una divinità chiamata “Orisha” basata sul culto degli spiriti. Non è casuale che tutto il cantato si abbandona a un’ammaliante sensualità, trasmessa come una preghiera sensitiva, in cui, l’appartenenza tribale si amplifica nell’appartenenza gemellare, ancor più ritenuta importante come condivisione della stessa anima: una insieme all’altra per essere la perfezione dei due poli dell’umanità. Fondamentalmente queste canzoni sono come degli “spiritual” del nuovo millennio, i quali, cercano di trasmettere la purezza e la miscellanea delle varie culture ormai diventate parte integrante del nostro presente.
Emozionante!

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MBONGWANA STAR
“From Kinshasa”

E inutile sottolinearlo, ma se le origini dell’uomo sono nate sulle sponde dell’Africa, allora, anche la musica ha una radice indissolubile con questa terra: una radice da cui sono cresciuti gli alberi di tutto il mondo, e i loro frutti sono lì da vedere, sono davanti ai nostri occhi per essere gustati. Coco Yakala Ngambali e Theo Nzonza Nsituvuidi, sono due congolesi già partecipi della Staff Benda Bilili, e ora di nuovo insieme per fare della città di Kinshasa un nuovo centro culturale dopo le terribili guerre che l’hanno attraversata, perché è proprio con l’arte che si può far rinascere un intero popolo, utilizzando anche le macerie. Non è casuale che il termine “Mbongwana” significa proprio “cambiamento”, quasi a voler dare un respiro internazionale alle loro evoluzioni ritmiche, in cui, il blues e la rumba, il trip-pop e l’hip-hop, l’elettronica e la techno, il funky e l’afro-beat, si possano integrare fra loro, come un insieme di culture che possono convivere felicemente. È questo il messaggio: tendere la mano all’occidente senza impaurirlo con le enormi masse migratorie che stanno monopolizzando l’attualità, perché tutta la musica del mondo è nata per farci stare insieme con il sorriso. Inoltre, se il loro intento dice: “tirare fuori la magia dalla spazzatura”, è proprio perché ognuno di noi può essere felice nel paese dov’è nato, per ricostruirlo, per farlo rinascere. Certo, in ogni città di questo pianeta i rifiuti sono un problema esistente, e allora perché non utilizzare la musica per farci sentire uguali di fronte alle più comuni inadempienze: basta suonare insieme.
Gioioso!

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ALAMAMA SHAKES
“Sound & Color”

Dopo il trascinante esordio di “Boys & Girls” che li ha lanciati nel panorama internazionale, questa band di Athens si ripete quest’anno con un album più notturno e intimista, diverso dalle cavalcate anfetaminiche che li avevano caratterizzati, soprattutto con la veemenza della loro leader: quella Brittany Howard che aveva stupito il mondo con la sua bravura e con la potenza delle sue performance. Ne consegue che il rithm’n blues indiavolato viene per un attimo accantonato per fare posto a un soul che penetra veramente la sua “anima” per riportarla alla luce, perché ogni emozione interiore, ogni vissuto bilanciato fra la sensualità e il dolore, ogni confessione che si muta in poesia, ha bisogno di essere esposta sullo stesso piano dell’irruenza deflagrante. Probabilmente, ci avevano abituati troppo bene nel farci bere la loro miscela esplosiva, eppure, sulle tracce di questo sound si stemperano dei colori affascinanti,i quali lasciano sulle pareti delle loro note degli affreschi dolcissimi. Poi è chiaro, non mancano di certo episodi in cui la vitalità esplode di nuovo, e allora, proprio per questo, ritorniamo ad ammirarli per la loro completezza e la loro bravura ora più che mai basilare per un’autentica maturità artistica.
Intenso!

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PORCUPINE TREE
“Anestetize”

Mi sembrava giusto fare anche un’escursione nell’ambito delprogressive, e questo live pubblicato nel 2015 dai Porcupine Tree è veramente un’epopea unica dove perdersi e ritrovarsi ogni volta che lo si ascolti. La perfezione del suono, la fluidità delle melodie, l’avvicendarsi delle canzoni, la professionalità della registrazione, fa di questo concerto risalente alla tourne del 2008, un vero gioiellino. Quando questo tipo di musica è composta ed eseguita con rara intelligenza creativa e scenografica, allora, tutte quelle tensioni post-moderne che si potrebbero leggere fra le sue righe, risultano un’eco legato ai pessimisti che negano ogni volta i risvolti positivi dell’attualità. Steven Wilson e soci hanno raggiunto la bellezza e ce la fanno apprezzare come se il sangue che scorre nelle nostre vene, fosse un’infinita melodia facente parte del nostro stesso essere. Poi è vero, la capacità di alternare gioia e violenza è una costante nata con l’evoluzione stessa della natura di questo pianeta, ma far riemergere la meraviglia che vive continuamente intorno a noi, è proprio la consapevolezza e la capacità di renderci partecipi a un evento che dovremmo ammirare ogni giorno.
Affascinante!

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BENJAMIN CLEMENTINE
“At Least For Now”

Figura di culto della scena musicale parigina ma londinese di nascita, questo splendido interprete riesce nella non facile caratteristica di trasformare le sue composizioni in un romanzo vero e proprio, dove lo imprinting letterario è sostanzialmente l’apice di un percorso poetico perseguito con passione inusuale. Sicuramente, la tradizione degli chansonnier gli è entrata nella pelle, ma tutto il retroterra anglosassone di raccontare liricamente una storia, diventa formalmente il suo stile che esula dalla forma-canzone basata su strofa e ritornello. Tutti i suoi testi sono costruiti con un’intensità viscerale dove, raccontare e raccontarsi,struttura l’impegno della sua performance e poi prosegue alzando i toni espositivi alternando amore e dramma, forza e malinconia, introspezione e grinta. Essendo anche questo un esordio discografico, stupisce la grande espressività degna di un gigante del palcoscenico, ma che in fondo appartiene a coloro che trasformano un motivo da fischiettare, in un apogeo dove la cultura e l’arte coesistono per essere il fine dove immedesimarsi.
Notevole!

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THE JON SPENCER BLUES EXPLOSION
“FreedomTower / No Wave Dance Party 2015

Dopo appena tre anni dal ritmo irresistibile di “Meat and Bone”, quel brutto figlio di puttana di Jon Spencer ritorna insieme ai suoi fidi compari con un album ancora più dinamico e irriverente, sporco di funkye rappate quanto basta per farci alzare dalla sedia e dimenarci senza remissione, pronti a festeggiare la nostra voglia di vivere; perché di festa si parla, una festa dedicata a tutta la città che la contiene: New York. Probabilmente, l’anima viscerale nata dall’avventura con i “Pussy Galore” prima e i “Boss Hog” dopo, imbastardita con tutte le contaminazioni della Grande Mela, confluite poi nell’esplosione della sua Band, non solo hanno lacerato positivamente o musicalmente il loro desiderio di riempirla con tutto ciò che trovavano per strada, ma nel contempo gli hanno dato fuoco, anche se metaforicamente, per incendiare il loro istinto di rivolta. Badate bene, la parola “rivolta” è qui utilizzata per evidenziare quella voglia tutta giovanile di gridare al mondo la rabbia e la gioia del loro divertimento,
Irriverente!

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JOHN ZORN
“The True Discoveries of Witches and Demos”

È sempre difficile star dietro alle uscite discografiche di questo pazzoide che, nel corso di un anno solare, è capace a pubblicare tutta una serie di album magari diversissimi fraloro, i quali spaziano fra il jazz e il rock senza remissione. Non è casuale che a distanza di soli cinque mesi da quel“Simulacrum” che farebbe la gioia degli amanti dei King Crimson più deviati, o degli appassionati un metal per niente banale, esce con questo “The True Discoveries of Witches and Demos” quello che potrebbe essere il suo ideale seguito, sicuramente migliore del precedente. Chiaramente, data la professionalità dei membri di questo ensemble assoldati dal nostro eroe, non si può discutere sulla loro bravura, è certo che la schizofrenia compositiva contaminata da un’estetica tutta incentrata sullo sconvolgimento delle tematiche espresse, lascia sempre di chi ascolta un senso di straniamento misto allo stupore. Blues contorti e sporcati da un’impostazione jazzistica quasimaniacale, escursioni dark-ambient contaminate con un post-core che si veste a festa, fughe chitarristiche di una pulizia cristallina talmente precise da sorprendere dopo le esplosioni vissute sulle altre tracce. Eppure, si è talmente coinvolti all’interno di queste trame sonore che si ascoltatutto di un fiato, che si vive completamente assorbiti nelle loro costruzioni immaginifiche. Saranno anche storie di demoni e streghe, ma nella realtà di tutti i giorni questi personaggi sono ormai intorno a noi e come tali, non dobbiamo stupirci se qualche volta usciremo con loro per offrirgli a bere.
Imponente!

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GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR
“As under Sweet and Other Distress”

Se nel 2012 questo gruppo canadese ha dato alla luce un capolavoro di rara bellezza, con questo novo album riesce a superarsi proprio per l’unità dell’insieme, riuscendo a estendere il proprio progetto musicale oltre i confini di una meravigliosa ossessione. Quando si trasforma il rumore bianco in melodia, il caos in un sublime ascolto, le distorsioni impazzite in un’estasi struggente, e l’impatto sonoro in un bordone di sentimenti, allora, questi ragazzi hanno veramente la bacchetta magica al posto delle mani. È come se uno tsunami passasse sopra di voi con una deflagrazione terrificante, ma nell’essenza vi sentirete come solamente accarezzati, talmente alte saranno le vibrazioni trasmesse nell’attraversarvi, per rimanere poi ad ammirare il fascino rimasto dopo il suo passaggio. L’insieme dei violini sovrapposti al fraseggio etereo e strabordante delle chitarre, diventa via via un crescendo epico senza precedenti, fino a raggiungere altezze inarrivabili di emozione pura e di autentica follia della bellezza
Fantastico!

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NILS ØKLAND / PER STEINARD LIE / ØRJAN HAALAND
“Lumen Drones”

Questo trio norvegese proveniente dal gruppo post-rockThe Low Frequency In Stereo, riesce a trasformare il jazz in una quieta psichedelia che a sua volta diventa una colonna sonorada assorbire mentre ci perdiamo nei meandri del nostro infinito. Le distese nordiche, si sa, lasciano nello spirito di ogni sognatore un senso di abbandono particolare, come se la rarefazione di questi paesaggi bianchi senza fine, ci ponesse davvero di fronte alle domande esistenziali con un senso di perdita da inseguire. Le aurore boreali diventano in queste latitudini una specie di sovrapposizione di filigrane depositate sul mondo, e la maniera con cui anche i loro suoni si appoggiano delicatamente uno sopra l’altro, trasmettono un’ansia contagiosa da ammirare e da temere. Se poi tutti i deserti della terra si ricongiungessero per estendersi a loro volta nell’immensità dell’anima, non ci rimane che ascoltare tutte le vibrazioni del vento per lasciarsi andare inghiottiti nel suo ipnotico richiamo.
Etereo!

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SARAH NEUFELD & COLIN STETSON
“Never Were the Way She Was”

Il violoncello di Sarah Neufeld già protagonista nel progetto degli Arcade Fire, e il sassofono avanguardistico di Colin Stetson, si riuniscono questa volta per regalarci un disco carico pathos e di intrecci lirici intessuti con tensione emotiva eccezionale, per intraprendere un viaggio dentro una visione quasi magica che non conoscevamo. La ricerca minimale è vissuta proprio con il sovrapporsi dei due strumenti che diventano a furia d’incontrarsi un suono unico, un’entità ambivalente dove emerge la ritmica insita nelle forze della natura. Si evidenzia un percorso di esperimenti che assimilano echi di un’etnica inventata per l’occasione, quasi a ribadire che ogni abitante del pianeta ha un debito con ogni forma vivente, e proprio con loro si deve confrontare per ascoltare il battito della madre terra. Le stratificazioni ambient si evolvono proprio con i ritmi che il susseguirsi dei fraseggi portano a un livello superiore, creando un vortice il quale invece di implodere si espande, aprendo e dilatando un pentagramma che si perde man mano in una forma di astrazione a volte cupa, e altre volte struggente
Fascinoso!

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MATANA ROBERTS
“Coin Coin Chapter Three: River Run Thee”

Matana Roberts è una sassofonista di Chicago, improvvisatrice, compositrice, performer, legata a un sound concettualista d’avanguardia, ha collaborato e creato insieme ad altri “sperimentatori visionari” molti progetti multimediali utilizzando danza, poesia, arti visive e teatro, per costruire insieme alla musica dei veri e propri spettacoli radicali, spaziando dall’attualità all’introspezione storica, dalla denuncia sociale alla politica. La sua ricerca estetica è qualcosa che va oltre il concetto stesso di musica, perché le sue contaminazioni anche eccessive travalicano ogni prospettiva consueta, nonostante viviamo in un periodo dove si è sperimentato di tutto. Coin Coin Chapter non è una semplice suite o un disco dove si può ascoltare della buona musica; Coin Coin Chapter è un’epopea generazionale, quasi antropologica; è un poema, dove convergono espressionismo lirico e figurazione simbolista. Sostanzialmente River RunTheeè il terzo capitolo di una saga la quale dovrebbe contenerne dodici, il problema è quello di stabilire in questo caso qual è il reale concetto di musica. Infatto, in questo caso non c’è musica, ma un lunghissimo drone di suoni; tutto è costruito intorno a una serie continua di registrazioni e campionamenti che Matana ha compiuto, girando per le strade d’America, riavvolgendo le storie per farle diventare dialogo, montandole in un collage dove le voci (tra cui anche quella del padre), le persone, i protagonisti (Malcom X per esempio), gli stati d’animo, si fondono all’interno di una corrente narrativa unica, disperata, rassegnata. Non c’è follia, ma un continuo loop che ripropone il senso della tragedia. I volti anonimi della gente o direttamente appartenutialla vita intima della protagonista si fondono in un cupo racconto fatto di legami e di perdite, di sogni e d’incubi ereditati dal caos. È come se Nico incontrasse Coltrane; la voce di Diamanda Galas lo strumento di Albert Ayler, il canto rassegnato di un blues-man qualunque le ardite improvvisazioni di IonIrabagon. In fondo, quando un prodotto di ricerca come questo si avvale di autentici professionisti, i quali, credono nel valore artistico e concettuale della proposta e la promuovo con entusiasmo, allora, esistono ancora persone serie vicine agli artisti autentici, produttori capaci di capire ancora cos’è il talento.
Alla fine probabilmente ci mancherà l’aria, come se dopo una lunghissima apnea cerchiamo disperatamente di ritornare in superficie. Non si può rimanere troppo a lungo sott’acqua, soprattutto quando il mondo sommerso è privo di colori, quando la fauna e la flora non s’intravedono nemmeno. Allora bisogna riemergere: oltre all’aria, vogliamo anche il sole.
Impegnativo!

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ANIMATION
“Machine Language”

Questo progetto rappresenta il testamento artistico che il sassofonista Bob Belden, scomparso a 58 anni lo scorso maggio, aveva intrapreso per concepire una futuribile opera ciberpunk, in cui, la fantascienza di Philip Dick, le esperienze elettriche del Miles Davis di “Bitches Brew”e le filmografie relative alla trilogia di Terminator,interagivano fra di loro per una storia dove, proprio le macchine, diventavano esseri pensanti fino a prendere il sopravvento sulla razza umana. Chiaramente è tutto costruito attraverso le ritmiche spezzate del bassista Bill Laswell e del batterista Matt Young, dalle astrazioni del trombettista Clagett e dall’elettronica di Roberto Verastegui, i quali, interagendo con il sax spaziale del protagonista e con la voce del cantante Kurt Elling, fanno prendere forma a tutti i capitoli di queste visioni. Un’opera jazz di non certo facile ascolto ma sicuramente molto interessante, in cui, lo spazio ricreato è concepito proprio per intraprendere una via moderna al concetto stesso di musica, perché l’avvento dei nuovi esseri propone anche la sperimentazione di un nuovo modello musicale, e da questo si potrebbe partire. Se poi la metafora dell’insieme vuole solamente imporre una domanda sulle nostre scelte di questo nuovo millennio, alloraquesto linguaggio trasversale sarà un monito che peserà sulle nuove generazioni.
Inquietante!

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KAMASI WASHINTON
“The Epic”

Concludiamo questa lunga carrellata con l’ultima monumentale fatica del sassofonista di Los Angeles, anche se un’impresa così completa e complessa non è possibile sintetizzarla in poche righe. Concepita con la partecipazione di innumerevoli ospiti illustri, con un’intera orchestra da accompagnamento con tanto di cori in cui, jazz, rock, black-music, fusion, funky, soul e altro ancora, si succedono lungo i tre CD per un’interminabile racconto senza precedenti. Impossibile analizzare questa tre ore di soluzioni sonore senza prima sentirle, perché sostanzialmente il tutto scorre senza troppe conflittualità. È come se tutta la storia della musica si fosse concentrata in questi solchi partendo dalle sfumature e dalle grandezze di Duke Ellington fino ai giorni nostri, attraversando ogni momento e ogni protagonista che abbia vissuto con uno strumento. Assolutamente da sentire e proprio per questo bisogna parafrasare il titolo.
Epico!

Giunti a questo punto non posso che augurarvi un 2016 musicalmente perfetto, sperando che la bellezza della musica ci coinvolga sempre di più nelle prossime giornate piene di “note” positive…
Un abbraccio a tutti dal Barman del Club!!!

di Antonio Bianchetti


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