Take Shelter, Rai Movie, ore 23,05.
Nowhere Boy, Rai 5, ore 21,15.
Fuori dal mondo, Rai Movie, ore 21,15.
Film del 1999 di Giuseppe Piccioni, a suo tempo assai acclamato, e poi finito nell’ombra. Forse piuttosto sopravvalutato. Una suora deve accudire un neonato abbandonato, un trovatello si sarebbe detto in altri tempi. Nel suo peregrinare alla ricerca della madre, conoscerà un uomo, e qualcosa cambierà per tutti e due. Con Margherita Buy e Silvio Orlando. Musiche di Ludovico Einaudi.
Il vendicatore del Texas, Iris, ore 21,04.
Un tardo western classico (è del 1963) diretto dal Tay Garnett di La taverna dei sette peccati e Il postino suona sempre due volte. A un buon ranchero gliene combinano di ogni per convincerlo a cedere la sua terra a un losco affarista. Quando gli uccidano la fidanzata, passa alla vendetta dura. Con Robert Taylor.
Oltre il giardino, Iris, ore 23,33.
Di quei film che al loro tempo fecero il botto e poi, chissà perché, son finiti nel cono d’ombra, son sprofondati nell’oblio collettivo. Che li si potrebbe chiamare, in assonanza con i cold cases della cronacaccia nera (e della serialità tv), cold movies. Film freddi e spettrali da riesumare dagli archivi e cui insufflare nuova vita. Da rivedere, questo Oltre il giardino del 1980 (in originale più incisivamente Being There, Esserci), per vedere l’effetto che fa. La penultima interpretazione di Peter Sellers, che lo portò alle soglie dell’Oscar, e ce lo fa rimpiangere ancora oggi. Trama quasi irraccontabile, da un libro del polacco-americano di radici ebraiche Jerzy Kosinsky, la cui vita fu complicata e perfino romanzesca, e finì in suicidio. C’è qualcosa, forse molto, della cultura e delle narrazioni yiddish in questa storia con al centro un uomo dolcemente folle, fuori dal mondo, che oggi definiremmo autistico, apparentabile alla figura della tradizione ebraica centro- ed est-europea dello schlemiel. Un giardiniere di nome Chance, un bambino eterno, un folle di Dio, dopo la morte del padrone che l’ha preso con sé e protetto, è obbligato a uscire da quella casa dove ha sempre vissuto. Si inoltrerà nel mondo e comincerà la sua incredibile avventura. Salvato e raccolto, come un cane randagio, dalla moglie di un influente uomo politico (siamo a Washington), diventerà inconsapevolmente una sorte di guru, di sfinge, di oracolo per la corte della capitale che scambierà le sue surreali parole, i suoi commenti-non commenti svagati, per preziosi tesori sapienzali. Per acute e profondissime metafore e trivellazioni del reale. Cosa mai ci voleva dire Kosinski? Perché è chiaro che il messaggio c’era, c’è. Being There è una parabola, forse, sul potere della perfetta idiozia, o sull’ottusità del potere che scambia il nulla per il tutto ed è sempre pronto a fabbricare nuovi idoli. O sull’innocenza più forte di ogni astuzia e arroganza. O sulla santità. Certo non si dimentica Peter Sellers che fa suo Chance e nello stesso tempo ci si identifica in toto, in una mimesi impressionante, in un abbattimento di ogni barriera tra persona e personaggio. Che è quanto ci ha sempre turbato e continua a turbarci in lui quando lo rivediamo sullo schermo piccolo o grande. Regia di Hal Ashby, uno dei nomi-guida della New Hollywood anni Settanta celebrata lo scorso novembre al Torino Film Festival con una molto vasta e amata dal pubblico retrospettiva. Il regista, per dire, di L’ultima corvée, Harold e Maude e Tornando a casa. Con Sellers ci sono Shirley McLaine e il glorioso Melvyn Douglas, uno che veniva dalla Golden Hollywod dei Lubitsch e dei Borzage, e che per Oltre il giardino avrebbe poi vinto l’Oscar come best supporting actor.
La condizione umana – parte 5, Rai Movie, ore 1,10.
Quasi una biografia in cinema del Giappone, o meglio di un pezzo di vita del Giappone novecentesco, dalla guerra primi anni Quaranta alla disfatta. La condizione umana è una trilogia realizzata tra fine anni Cinquanta e primissimi Sessanta da Masaki Kobayashi, che già dal suo titolo (comune a tutte le parti) stabilisce soggetto e oggetto della narrazione. Vale a dire l’uomo comune giapponese travolto e sovrastato da eventi cui non può sottrarsi. L’everyman che tutti riassume in sé, l’uomo dalle storie e dal destino esemplari, è il giovane ingegnere Kaji, inviato nel 1943 nella Manciuria occupata dal suo paese. Lo accompagna la moglie, e insieme potranno vedere con quale spietatezza siano trattati i prigionieri cinesi e la popolazione locale. In seguito a una tentata evasione di lavoratori-schiavi cinesi dalla miniera di cui è responsabile, Kaji viene destituito, arruolato e mandato in guerra. L’ultima parte della trilogia, forse la più interessante, vede il nostro protagonista dopo la disfatta del suo paese, la fine dell’impero, le bombe su Hiroshima e Nagasaki. Resterà intrappolato nella Manciuria ormai liberata, anzi occupata, dall’Armata rossa, e sperimenterà la brutalità dei vincitori. Un film che in patria ebbe un successo enorme e servì al paese tutto a rielaborare quel passato così vicino e così doloroso. Il Giappone si identificò in Kaji, nel suo essere buono e pacifico, nel suo essere stato coinvolto suo malgrado nella guerra, e in qualche modo si autoassolse. Forse fu (anche) una gigantesca rimozione di responsabilità, ma ci sono momenti in cui c’è bisogno di cancellare, anche di negare. Ogni film della trilogia è diviso in due parti, e dunque quella trasmessa stasera è la prima parte del terzo episodio, Nessun amore è più grande.
Angeli con la faccia sporca, Rete Capri, ore 21,00.
Grandissimo, e ancora oggi emozionante e perfettamente funzionante, gangster movie del 1938 diretto dal Michael Curtiz di Casablanca. Con una coppia memorabile di attori, James Cagney e Pat O’BRian, più un Humphrey Bogart agli esordi. L’illustrazione di quanto detto da Martin Scorsese, secondo cui se nascevi italiano in un quartoiere italiano di New York ti restavan due strade nella vita, o farti prete o diventare criminale. Angeli con la faccia sporca è esattamente così, anche se ambientato tra gli emigrati d’Irlanda a New York. Rocky e Jerry crescono insieme, si daranno insieme al piccolo furto e alla piccola criminalità, finiranno in galera. Poi Jerry si pentirà e si farà prete, Rocky diventerà un boss. Ma le lorop traiettorie son destinate a incrociarsi e a influenzarsi, fino a un finale drammatico. Tito bellissimo e leggendario. L’opposizione prete-gangster la ritroveremo in molti film, ad esempio L’assoluzione di Ulu Grosbard con Robert De Niro e Robert Duvall.
Police Python, Rete Capri, ore 23,00.
Polar tesissimo e duro come pochi realizzato nel 1977 da un autore allora assai rispettato come Alain Corneau. Film dark, notturno, di ossessioni e abiezioni, con uomini della legge al di sotto di ogni sospetto,con donne vittime e donne conniventi con i colpevoli. Con un feticismo delle armi, in particolare della Colt Python allora in dotazione alla polizia francese, inquietante e insolito in un film europeo. Un ispettore scorbutico e solitario, Ferrod (Yves Montand), si innamora di una ragazza italiana dalla doppia vita, Silvia Leopardi (Stefani Sandrelli). Scoprirà difatti non solo l’attrazione di lei per le armi, ma il suo essere legata al commissario Ganay, che di Ferrod è il capo. Silvia finirà ammazata da Ganay, il quale farà in modo che dell’omicidio venga incolpato il suo sottoposto. Film malato, morboso, perverso. Non c’è solo Yves Montand tra gli interpreti, ma anche la sua consorte Simone Signoret. François Périer, sempre perfetto nei ruoli laidi, è il commissario demoniaco.
Il conte di Matera, Tv 2000 (canale 28 dt, 138 Sky e 18 TvSat), ore 21,20.
Adoro i cappa e spada italiani anni Cinquanta-primi Sessanta, film che hanno il profumo di quel cinema popolare e ingenuo, ma asai ben fatto e artigianalmente ineccepibile, che era un nostro orgoglio e che conquistava i mercati mondiali. Questo, del 1957, benché diretto dallo specialista del genere Luigi Capuano, non è tra i più conosciuti, ma un’occhiata e anche più se la merita. In un Medioevo abbastanza vago e approssimativo è lotta feroce tra l’erede del ducato di Matera e il cattivissimo, perfido conte Tramontana. Con Otello Toso, Giacomo Rossi Stuart (il papà di Kim) e una meravigliosa, giovanissima Virna Lisi.
La chiave, Cielo, ore 23,15.
Incredibile che lo passino in tv. Incredibile se si pensa all’aura maledetta e scandalosissima che si porta dietro dai tempi della sua apparizione su grande schermo (correva l’anno 1983, e fan trent’anni e passa). Film epocale, per più versi. Per il suo autore Tinto Brass, che schiantò il box office e si affermò come signore dell’erotismo nel famoso immaginario collettivo, e mica solo italiano. Per come inserì la rappresentazione del sesso, e il sesso esplicito o quasi, nel cinema medio-mainstream. Per il lancio di Stefania Sandrelli, una che veniva da Germi-Bertolucci-Scola-Pietrangeli, quale opulento simbolo del sesso nazionale e oggetto di ogni possibile sogno e voglia di possesso. Ispirato a un romanzo di Tanizaki, una storia morbosa assai ambientata nella Venezia, territorio brassiano per eccellenza, ai tempi del fascismo e dell’entrata in guerra dell’Italia. Protagonista la strana coppia formata dall’inglese direttore della Biennale (però!) e dall’albergatrice veneziana sua moglie. Lei legge il diario in cui lui racconta le proprie fantasie sessuali (dopo che lui ha lasciato in giro volutamente la chiave di dove l’aveva rinchiuso perché la moglie vi accedesse), lei comincia a scriverne uno suo. Il risultato è che si dan da fare entrambi, e insieme, per scatenare al massimo il proprio desiderio e le proprie voglie. Tormenti e piaceri, e si sfiora voluttuosamente il kitsch con scene ormai leggendarie come lei che fa pipì sul selciato. Trapela un senso di verità, comunque, perché Brass al sesso come via verso l’estasi crede davvero. Sandrelli assoluta dominatrice. Con lei Frank Finlay e Franco Branciaroli. Cameo di Ugo Tognazzi.