10 film. David Lynch, Ridley Scott, Oliver Stone, Ernst Lubitsch, Robert Siodmak. Marina Abramovich all’opera. Un mumblecore-movie.
Mulholland Drive di David Lynch, Rete 4, ore 0,02.
Legend di Ridley Scott, Rai 4, ore 21,12.
Un flop, però parecchio interessante, di Ridley Scott. Il quale, e siamo ancora nell’85, si avventura nei territori allora cinematograficamente poco esplorati del fantasy. E, come spesso gli capita, ri-fonda un genere. Con un Tom Cruise agli albori (erano 28 anni fa). Da rivalutare.
Marina Abramovic – The artist is present, Rai 5, ore 21,22.
Ma la performer che sbatte la testa contro il muro in La grande bellezza di Sorrentino è una presa per il culo della Abramovic? Il dibattito ancora ferve, e intanto incredibilmente approda su Rai 5 questo documentario che monumentalizza la vera Marina Abramovic e che un paio di anni fa ha fatto il giro di molti festival, se ricordo bene con partenza dalla Berlinale. C’è da chiedersi come mai la signora, jugoslavo-montenegrina (nata a Belgrado) di origine ma americana di adozione e di fatto (soprattutto dal punto di vista promozional-mercantile), sia addivenuta – dopo decenni di onestissimo impegno in tutte le Biennali e in tutti i Documenta con performance anche faticosissime e toste – solo negli ultimi anni così famosa, anzi proprio popolare, sino ad assurgere a simbolo e paradigma dell’artista contemporaneo (insieme a Damien Hirst, Cattelan e pochissimi altri). Sempre bellissima, di una bellezza imperiosa, Abramovic ha avuto decenni fa l’idea geniale – peraltro non solo sua – di usare il proprio corpo e la propria presenza live (L’artista è presente, per l’appunto) come materia e campo di intervento della propria arte: sottoponendosi anche a autovessazioni vere e proprie (un mio amico se la ricorda a una qualche Biennale farsi ricoprire di ossa e quant’altro ad alludere forse ai massacri di guerra e alle fosse della morte nella sua ex Jugoslavia). E la chiamano performance art. A modo suo, Diva e Divina. Questo documentario, forse un filo in ginocchio di fronte alla Pitonessa, restituisce e racconta doverosamente, anche con video e filmati (sono la parte più interessante), la sua carriera, ed è da vedere.
Fra le tue braccia di Ernst Lubitsch, Rete Capri, ore 21,00.
Chi venera Lubitsch non se lo perda, anche se non è tra le sue cose maggiori e più famose. Però è l’ultimo film integralmente suo, anno 1946. La signora in ermellino, che uscirà postumo nel 1948, un anno dopo la sua morte, verrà infatti terminato da Otto Preminger. Massimo rispetto allora, e pure devozione. Quando l’ho visto m’è sembrato davvero terminale di certo cinema hollywoodiano, malinconicamente crepuscolare, con quella sua smaccata finzione, con gli interni e anche i (falsi) esterni tutti girati in studio così fuori dal tempo. Lubitsch è questo, certo, era sempre stato questo, ma nel 1946 Fra le tue braccia è ormai un oggetto remoto e alieno in un cinema, anche americano, ormai voglioso del massimo realismo, di una realtà credibile e non più sfacciatamente simulata. Anche gli elementi narrativi non si coagulano sempre al meglio, restano separati e a tratti incongrui. Manca la perfezione smagliante e ipnotizzante del Lubitsch massimo. Ma cosa importa, è sempre Lubitsch. In un’Inghilterra di cartapesta cui stentiamo a credere, una ragazza del popolo e un esule polacco si incontrano in una villa di campagna in cui l’una è domestica-cameriera, l’altro ospite. Entrambi intrusi, pur se in modi differenti. Si scontreranno con le durezze della rigida divisione in caste della società britannica e, inevitabilmente, soidarizzeranno e si innamoreranno. Lei, figlia di un idraulico, ha la passione di sistemare rubinetti e condutture malfunzionanti, il che sposta il film in certi momenti verso la farsa e/o la screwball comedy, generi non proprio lubitschiani. Con Charles Boyer, una giovane Jennifer Jones e un ancora più giovane Peter Lawford, futuro membro per matrimonio del clan Kennedy. Quel che resta oggi di Fra le tue braccia colpisce è come tratta il tema – cui l’israelita centroeuropeo Lubitsch non poteva non essere sensibile – della diversità sociale, dell’essere al di fuori e ai margini.
La regina dei castelli di carta, da Stieg Larsson, la7d, ore 21,10.
Terzo dei thriller girati in Svezia dalla saga Millennium di Stieg Larsson, prima che se ne apropriassero l’America e David Fincher con con il remake Uomini che odiano le donne. Anche in questo capitolo numero 3 domina la Lisbet di Noomi Rapace.
The Samaritan con Samuel L. Jackson, Rai Movie, ore 21,15.
Noir canadese indipendente, e molto cinefilo e citazionista, del 2012. Un film che gode di buona fama e di un certo status, con Samuel L. Jackson nella parte di Foley, un uomo che dopo quasi vent’anni di galera per truffa esce. Intenzionato, ovvio, a rifarsi una vita. Conosce una donna, se ne innamora, progetta di stare con lei. Ma sia sa, quel che sei stato torna sempre e non perdona. Le ombre del passato, come titolavano i feuilleton. Un boss si rifà vivo per ingaggiare Foley in una colossale truffa in cui serve il suo know-how. Il nostro non potrà tirarsi indietro. Molto premiato in patria. Da noi mai uscito in sala. David Weaver è il regista.
Tra cielo e terra di Oliver Stone, Rai Movie, ore 22,55.
Della trilogia dedicata da Oliver Stone al Vietnam (questo, e prima Platoon e Nato il 4 luglio), di sicuro Tra cielo e terra è il film meno consociuto, e il più trascurato e dimenticato. Eppure una ri-visione e un recupero li merita, perché Stone è narratore sempre robusto ed efficace, anche se spesso straborda e tende al tonante e al retorico, e pure alla smargiassata un po’ bulla e cafona (mi riferisco a stile e linguaggio). E però qui non racconta il Vietnam dei combattenti o dei reduci, ma quello di una donna, visto da una donna, la cui storia si fa parabola anche troppo esemplare del destino di un paese. Come, facendo le debite differenze, era la Maria Braun di Fassbinder. Le Ly nasce in un villaggio, assisterà prima all’insorgenza comunista contro i colonialisti francesi, poi contro gli americani. Verrà catturata e torturata dai sud vietnamiti, rapita e stuprata dai Vietcong che l’accusano di collaborazionismo. Resterà incinta, farà la prostituta, conoscerà un militare americano, lo sposerà, se ne andrà a vivere con lui negli Stati Uniti. Ma nemmeno lì le sue vicissitudini avranno fine. Con l’attrice vietnamita-americana Hiep Thi Le, Tommy Lee Jones e Joan Chen.
Gigantic di Matt Aselton, La Effe, ore 21,15.
Romantic comedy del 2008, però ultra-indipendente, inserita in quel movimento (insomma) battezzato Mumblecore: cinema low budget lontano dalle major, svelto, tutto in digitale, preferibilmente su gente sui venti-trent’anni ripresa nella sua minima e spesso caotica quotidianità. Qui ci sono due star Mumblecore, Paul Dano (visto in Il petrolierie e in Ruby Sparks) e soprattutto lei, Zooey Deschanel, occhioni che non si dimenticano, reginetta indie soprattutto dopo il successo di (500) giorni insieme. Gigantic, diretto da Matt Aselton, vede un venditore di materassi – che chissà perché d fin da ragazzino sogna di adottare un bambino cinese – innamorarsi di una ragazza trovata a dormire su uno dei materassi del negozio. Con una vena di stravaganza e follia che vorrebbe forse riesumare iu fasti della screwball comedy, e qui difatti qualcosa, ma proprio qualcosa, si ritrova di Susanna! di Howard Hawks (la ragazza-ciclone che sconvolge la vita di un timido). Occhio, c’è anche il grande John Goodman.
Il corsaro dell’isola verde, Italia 7 Gold, ore 22,45.
Burt Lancaster al culmine del suo fulgore corporale e muscolare (è stato uno degli attori più fisici della sua generazione, sempre pronto a mettersi a torso nudo) è il protagonista – e anche il produttore – di questo piratesco classico del 1952. Realizzato su un copione che è un coacervo di meravigliosi cliché del genere, quasi un repertorio. Dunque, il buon pirata Vallo (Lancaster, of course) se la deve vedere con il perfido governatore, della cui figlia però si innamorerà. Non basterà la passione a farlo desistere dallo schierarsi con iribelli al dittatore. Tripudio coloristico in avventuroso gran spettacolo che vede alla regia Robert Siodmak, uno dei nomi dell’asse Berlino-Hollywood, che aveva dato il suo meglio nel noir. Girato in parte in una Ischia che si finge i Caraibi.