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I miserabili (1862, tit. or. Les Misérables) è uno dei romanzi più impegnativi e, insieme, più appassionanti della letteratura europea moderna. Ridotto variamente in ogni lingua, racconta le storie dell'ex galeotto Jean Valejan e della piccola Cosette in una Parigi del sottosuolo, che ricorda ancora fin troppo bene la rivoluzione francese e l'avventura napoleonica, ma che ha nello scorcio successivo al congresso di Vienna il suo sfondo naturale. Romanzo appassionante quant'altri mai, dove ritroviamo alcuni snodi narrativi resi celeberrimi dal Conte di Montecristo, I miserabili reinterpreta però il senso stesso del racconto, puntando su soluzioni molto diverse.
La forza principale risiede intanto sui personaggi. Victor Hugo spende pagine su pagine per presentarli al suo lettore, ora con episodi dove possano emergere i tratti fondamentali, ora in pagine dove la sua voce onnisciente li analizza e li seziona quasi: la forza analitica di questa scrittura è sbalorditiva e, a mio avviso, senza eguali (non dimenticherò mai la definizione fulminante di una donna che "era madre perché era un mammifero"). Mai avevo letto un simile campionario umano: certo, l'autore si prende il suo spazio, ma certi affondi, certi squarci all'interno dell'anima sintetizzano e giustificano, anzi valorizzano tutto il tempo che i lettori hanno dedicato alla loro conoscenza di questi uomini del primo '800. Hugo penetra nelle singole anime e a noi sembra di poterne carezzare la pelle o di inorridire alla loro comparsa. L'autore non mira a creare un sistema esemplare: i personaggi riescono ad assolvere alla loro funzione narrativa proprio nella misura in cui non sono tipi fissi, bensì libere creature della storia, episodi irripetibili dell'esperienza umana.
Il risultato è, a dir poco, incantevole. La virginale Cosette, l'erculeo Jean Valejan, gli squallidi rettili Thénardier, il romantico Marius e l'irresistibile nonno, monsieur Gillenormand, nostalgico illuminista e fervente monarchico, i giovani rivoluzionari, l'inflessibile Javert, tutti entrano nella vicenda con la loro carne e ne escono triturati, si trasfigurano senza perdere la loro identità. I personaggi attraversano la storia e ne rimargono ai margini, come quasi sempre accade a ciascuno di noi: affrontano le loro vicende mentre la storia li inchioda al loro destino. Senza arrendersi alle mani plastiche di un narratore fin troppo presente, però, giocano tutte le loro carte con un'astuzia e un eroismo che ne fa degli eroi.
È chiaro che, in particolare, Jean Valejan è un eroe: possiede una saggezza rara e una manualità invidiabile e ha a disposizione una solidità economica che quasi si dimentica da dove provenga, è parecchio più forte di giovanotti nel pieno delle loro forze, coraggioso e soprattutto sembra a buon punto nel suo cammino di riscatto di una vita di stenti e di miseria. Proprio nella sua umanità, nella sua incertezza, l'uomo si toglie la maschera e si rivela per quello che è: un essere tormentato dai dubbi e dalla necessità di superarsi. In questa sua tensione ad andare oltre se stesso e nei rarissimi momenti in cui la sua anima nera si risveglia si stempera quel tratto monolitico dell'eroe, poiché Jean Valejan è sì un eroe, superiore agli altri uomini, ma non smette di vivere tra gli altri, con gli altri e, insomma, non si crea quella distanza altera tra l'aristocratico Edmond Dantès e gli altri nel romanzo di Dumas. Jean Valejan sa sporcarsi le mani e vive tra i miserabili, ciò che lo rende senz'altro più vicino alle fervide simpatie liberali e socialiste di Hugo. Se sia per questo più o meno eroico del Conte di Montecristo, non saprei dirlo: credo piuttosto che nell'uno e nell'altro convivano, come una forza, il bisogno di riconoscersi umani tra gli uomini e la volontà di distinguersi, di essere più grandi.
Ne I miserabili non troviamo lo sferzante e magnetico sibilo della vendetta, quel motore irresistibile in termini di successo popolare, quella trappola sempre pronta a scattare, quella tentazione costante a rivalersi, certo; ma troviamo qualcosa di più tragico, di più elevato, ovvero una lotta costante e senza quartiere contro il proprio destino che Jean Valejan sembra avere ingaggiato e fatto sua, né si può dire che manchino le palpitazioni tipiche dei romanzi d'appendice (certe sequenze sono mozzafiato). A confronto con il supereroe mascherato da Conte di Montecristo, il protagonista de I miserabili ha una grandezza da Titano incatenato a una roccia nel fango e si rivolge agli dei.
Ma c'è di più: se il Conte di Montecristo lascia intravedere una società - forse infelice, ma patinata - che una persona di medio-bassa cultura riconosce senz'altro ancor oggi a prima lettura, Hugo mira ad affrescare il suo mondo con una forza eternatrice, a restituircelo nella sua interezza. I miserabili non è meno la storia di Jean Valejan e di Cosette per il fatto di essere parte di un affresco più grande, anzi lo è di più proprio per questo. Se è vero che la storia di un uomo comincia molto prima, finisce molto dopo e si estende molto più in là della sua esistenza biologica, direi che niente meglio di questo romanzo potrebbe restituirci il vissuto del suoi protagonista. Cosette rappresenta la missione di Valejan e insieme incarna un'ideale di amabile, quasi empirea, purezza, ideale che doveva rimanere esterno perché l'uomo potesse incarnarlo e proteggerlo nella storia.
Sono la storia e Parigi le due balene che il capitano Achab-Hugo insegue nella sua missione. Questa mia suggestione, senz'altro autobiografica e non argomentabile sul piano critico, ha accompagnato tutta la seconda parte della lettura de I miserabili. Nel narrare l'avventura di Valejan e di Cosette, Hugo rintraccia il senso della storia, ovvero della necessità di raccontarla: affabulazione per affabulazione, che almeno questa storia sia completa, sia vera, sia un giudizio maturo e ben sostenuto sugli uomini, le cose e le vicende! Così si spiegano l'appassionatissimo excursus su Waterloo (che in un'ideale antologia andrebbe messo prima e a fianco dello stesso evento in Momenti fatali di Stefan Zweig) e il ritratto incantevole di Luigi Filuppo; ma forse così, nell'era delle rivoluzioni e degli indimenticabili giovani rivoluzionari, si spiegano ancor meglio due personaggi come il mastino-ispettore Javert (il Leitmotiv di un destino che si accanisce sulle sue vittime) e il dionisiaco nonno Gillenormand: entrambi eredi di una visione illuministica, tardosettecentesca, logica e inflessibile della vita, si trovano a vivere in un secolo che faticano a comprendere (e che in un caso diverrà letale, nell'altro vincente). La loro laicità è ortodossa e fanatica, l'una legalistica, costituzionale, l'altra monarchica e accentratrice; per entrambi l'istituzione in cima, l'uomo al suo servizio.
Ma la storia è anche altro, la vita è spesso altro, ci dice Hugo, c'è un sommovimento nei fatti e nelle idee che le catene della logica e del potere non bastano a spiegare. E questo sommovimento carisco non è un borborgmo qualsiasi, è Parigi. Perché I miserabili è - più di ogni altro romanzo che io abbia mai letto - un romanzo-città: Parigi come la balena di Melville, viene descritta in ogni suo aspetto, la sua anatomia e la sua fisiologia, il suo comportamento, le sue viscere e la sua feroce bellezza. Valga per tutte, la lunga e dettagliata digressione sulle sue fogne dentro cui si svolge un episodio chiave dell'ultima parte del romanzo: Hugo vi squaderna un sistema nel suo evolversi e prova a interpretarlo alla luce di ciò che è Parigi. Gli episodi successivi, compresa l'agnizione finale, non sono meno importanti, ma sono codificati, non è lì la forza del romanzo (che trova forse nello stesso Hugo momenti più felici altrove), bensì proprio nella maglia enciclopedica che lo sostiene. È un mondo, un mondo intero affrescato nel tempo e nello spazio.
Come Moby Dick, ma anche come quel miracolo irriproducibile (alla faccia di Pierre Menard) che è il Don Chisciotte, I miserabili è un romanzo per me importante perché educa alla sua stessa lettura, o piuttosto alla lettura tout-court. Quest'aspetto didattico, che prescinde un po' da ciò che si impara, riguarda piuttosto ciò attraverso cui si impara. E si impara attraverso le esperienze, attraverso i fatti e i casi delle persone, attraverso il mutare della fortuna e il filtro del giudizio, sporcandosi le mani a pensare le cose e il mondo.
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