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I misteri e i fantasmi del castello di Fumone

Creato il 16 settembre 2014 da Cultura Salentina

I misteri e i fantasmi del castello di Fumone

16 settembre 2014 di Pierluigi Camboa

Il dottor Babbarabbà, gli òrapi e altri misteri ciociari
“Per trovarmi in un luogo comune non ho necessità di viaggiare e nemmeno di muovermi: ci arrivo in un istante montando sull’astronave della mia stupidità” (Il dottor Babbarabbà, “Minestrone con carrube”, Proemio, luglio 2014)

Opera di De Candia

Edoardo De Candia: Olio su tela

Il viaggio in Ciociaria volge al termine, ma ritroviamo il dottor Babbarabbà con il suo fido amico Lucio tutti impegnati nell’impegnativa visita del misterioso e tetro castello-fortezza di Fumone.
Dopo la faticosa inerpicata e la visita degli spettacolari giardini pensili, si apprestano a visitare gli angusti locali del misterioso castello.

La discesa dalla ripida serie di scale a spirale sembrò a tutti molto più rischiosa della precedente e corrispondente salita e fu affrontata con grande cautela e circospezione dal gruppo dei visitatori del castello… E si iniziò, finalmente, la parte più interessante della visita dalla fortezza di Fumone, in quei piccoli locali con le pareti tinteggiati di un orrendo color rosso sangue e così tetri e pieni di mistero da incutere paura…
La prima tappa della visita fu il terribile “Pozzo delle Vergini”, una stretta e profondissima fossa in pietra, sul cui fondo si dice fosse anticamente disposta una fitta trama di lame affilatissime con la punta aguzza rivolta verso l’alto; questa cavità rappresentava la morte certa per tutte le ragazze che vi venivano buttate dentro, perché trovate già deflorate dal signorotto locale nella prima notte di nozze, in base all’orribile legge medievale dello “Ius Primae Noctis”…
La visita progredì in una sorta di crescendo rossiniano di terrore, perché la guida rivelò al gruppo di visitatori tutti i tetri segreti di ognuna delle piccole stanze, nelle intercapedini delle pareti delle quali si narra siano stati murati vivi tantissimi nemici del signore del castello; pare, infatti, che tutti i nemici del castellano, una volta sconfitti, venissero fatti sparire per sempre, affinché non ne rimanesse né traccia, né ricordo… E tenuto conto che per secoli la fortezza fu, di fatto, un possedimento del Papato, essa svolse la funzione di ferale prigione (e tomba) per tanti ecclesiastici, tra i quali l’Antipapa francese Gregorio VIII, che si oppose ai Pontefici Pasquale II, Gelasio II e Callisto II, l’ultimo dei quali lo sconfisse definitivamente e lo fece condurre prigioniero, nel 1124, nella fortezza, ove si ritiene abbia incontrato la morte, sebbene il suo corpo non sia stato mai rinvenuto.
Altro “ospite” illustre delle segrete del castello fu Papa Celestino V, il Papa che “oppose il gran rifiuto” perché nel 1295, stanco e disgustato dalle tante pressioni e giochi di potere che infestavano la Chiesa (corsi e ricorsi storici: a proposito, in bocca al lupo, Papa Francesco!), rinunciò alla tiara, ritirandosi a vita ascetica e monastica, ma che, per ordine del suo successore, il perfido Bonifacio VIII, vi fu rinchiuso, con la cinica giustificazione di volergli mettergli a disposizione un sicuro rifugio nel quale pregare, in una minuscola, angusta cella, nella quale trovò la morte il 19 maggio 1296; tuttavia, contro la teoria della morte naturale, molti storici affermano che l’anziano Celestino V fu assassinato, dato che il suo teschio presenta un foro tondeggiante come se un chiodo l’avesse trapassato e tale ipotesi è stata confermata da indagini di tipo medico legale e da uno studio radiologico del 1988 che ha messo in evidenza la perforazione cranica attribuibile ad un oggetto appuntito e compatibile con un grosso chiodo. Le cronache narrano che, poco prima della sua morte, accadde un grande prodigio: una croce di una luminosità accecante apparve dinnanzi alla sua cella; in seguito a quel prodigioso evento, molti proposero la canonizzazione del “papa del gran rifiuto” e, a tal fine, intervennero a fornire la loro testimonianza del prodigio persino i due cavalieri che erano stati messi a guardia della sua cella. In tanti ritennero che l’apparizione di quella prodigiosa croce luminosa fosse un segno divino, intervenuto per riparare alle terribili ingiustizie subite da questo piccolo grande Papa, la cui vita, per molti aspetti, rimane ancora avvolta nel mistero. Si narra, tuttavia che, a partire dal giorno della sua morte, di tanto in tanto si sentano battere colpi misteriosi alle pareti e, quindi, il primo dei tanti potenziali fantasmi del castello sarebbe riconducibile alla triste vicenda del “Papa del gran rifiuto”…
Procedendo attraverso gli angusti corridoi di intercomunicazione tra le stanze del castello, la guida informò i presenti che, ogni notte, da qualche parte, negli inaccessibili sotterranei del castello, si ode distintamente un misto di grida, di lamenti e di urla angoscianti delle anime dei prigionieri morti nei sotterranei del castello, che dopo la loro tormentata vita terrena, non riescono a trovare ancora l’eterno riposo, raggelando, così, il sangue di chi ha la fortuna (o la sfortuna) di udirle. Altri affermano di aver udito uno sferragliare d’armi, che si pensa sia da mettere in relazione alla feroce determinazione guerriera dei barbari o, forse, dei condottieri volsci…
Ma la testimonianza diretta e visibile della vicenda più macabra ed inquietante del castello la si riscontra nella Sala dell’Archivio, all’interno della quale, pietosamente e teneramente risposto in una teca, contenente i suoi giocattoli e gli altri oggetti della sua infanzia, giace il corpicino imbalsamato (e tuttora straordinariamente ben conservato, quasi che fosse un bambolotto di cera) di un bambino, il Marchesino Francesco Longhi, morto alla tenera età di 3 (o, forse, 5) anni. La superficie superiore della teca riporta inciso il numero “17”, numero fortemente collegato, sin dall’antichità, alla sfortuna. I più ritengono che la superstizione fosse nata ai tempi dell’antica Roma, per la consuetudine di incidere sulle pietre funerarie la parola “VIXI” (che vuol dire vissi, sono vissuto), il cui anagramma “XVII” equivale a 17 nel sistema di numerazione romano; quindi, quel “17” inciso sulla teca starebbe a significare che il povero marchesino visse (e vive ancora)… Un altro mistero riguarda la stessa tecnica di imbalsamazione utilizzata, un oscuro metodo di mummificazione ottenuta con l’utilizzo di sostanze cerose, metodica ancora oggi ignota, dato che l’imbalsamatore che la realizzò morì in circostanze misteriose pochi giorni dopo la conclusione del lavoro, senza lasciare alcuna nota che consentisse di conoscerne la metodica utilizzata. Tuttavia, la parte più lugubre della vicenda riguarda le cause della morte del bambino e la guida espose la storia lentamente e con tono drammatico e solenne: il piccolo Francesco era il settimo (o l’ottavo) figlio del Marchese Longhi, quel figlio maschio così desiderato, dopo tante femmine. La sua nascita aveva, perciò, riempito di grande gioia il cuore dei genitori, che tanto lo avevano desiderato, ma aveva provocato anche una marea montante di rancore e di autentico odio nell’animo delle sue sorelle che vedevano in lui un potenziale nemico; infatti, come unico figlio maschio, egli avrebbe ereditato tutti i beni di famiglia, costringendo tutte le sorelle a matrimoni combinati o, peggio, a prendere i voti. L’odio verso l’ultimogenito montò a tal punto, che le sorelle più grandi ordirono un terribile e sottile piano per ucciderlo, senza lasciare alcuna prova del loro misfatto; infatti, fingendo di voler amorevolmente assistere il fratellino, giorno dopo giorno inserivano minuscoli frammenti di vetro nel suo pasto, così che comparvero i primi, apparentemente inspiegabili, dolori addominali che, con il passar del tempo divennero sempre più atroci, sino a trasformarsi in una lenta agonia che condusse il marchesino a morte. La madre, allora, straziata dal dolore per la perdita di quel figlio tanto atteso e amato, ordinò, come impazzita, di far ridipingere tutte le pareti interne del palazzo con quell’angosciante color rosso sangue e di rimuovere e sostituire tutti i quadri di famiglia che esprimevano scene di felicità e di serenità; dispose, inoltre, che il corpo dell’adorato figlioletto fosse imbalsamato con un’innovativa tecnica a base di cera, affinché la sua memoria non cadesse mai nell’oblio… E pare proprio che sia l’anima del fanciullo sia quella della madre non abbiano mai abbandonato le sale del castello; infatti, capita spesso che piccoli oggetti della sala vengano nascosti o spostati dallo spirito giocoso ed infantile del marchesino. Ma accanto a questa, in fondo, simpatica e gioiosa presenza, in talune notti, ed in particolare in quelle di plenilunio e di luna nuova, si odono distintamente lamenti, nenie e pianti strazianti, che sono l’espressione del dolore infinito dello spirito della madre, la Marchesa Emilia Caietani Longhi, la quale, dopo il terribile lutto subito, non riuscì a trovare pace né in vita, né in morte e che, per questo, di notte viene a cullare amorevolmente l’amato figlioletto…
Alla fine, il bel viaggio ricreativo-culturale in Ciociaria terminò e alle ore 8,30 di martedì 3 giugno Lucio ed il dottor Babbarabbà ripresero la via del ritorno, allungando il tragitto per una tappa intermedia a San Giovanni Rotondo, dove il dottor Babbarabbà avrebbe rivolto una preghiera a San Pio… E fu così che la piccola J10 di Lucio si mise ad imboccare a fatica le tortuose strade degli Appennini, via Venafro ed Isernia, per poi raggiungere, dopo tre ore e mezza abbondanti, la meta… Il dottor Babbarabbà uscì dal santuario pieno di gioia e di serenità e gli parve quasi un segno divino poter aiutare un bimbetto di 4-5 anni al quale era sfuggita la palla dalle mani sul piazzale della chiesa: si chinò quindi a raccogliere la palla e… crack! Il colpo della strega! E fu così che rimase immobile, piegato in due con la palla tra le mani e allora il bimbo gli corse incontro, gli strappò con decisione la palla e gli assestò un gran bel calcione negli stinchi, accompagnando queste sue azioni con un bel: “Così impari a rubare la palla mia, scemo!”…
Ebbene, sei proprio un grande sfigato, caro il mio dottor Babbarabbà!


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