Qual è il trait-d’union tra Federico Moccia e Michel Martone? L’atroce quesito antropologico è sadico quanto prevedibile, almeno in apparenza. I maliziosi potrebbero pensare al successo discutibile, alla prosa postadolescenziale, alle opere sopravvalutate di grande successo. In realtà Moccia e Martone hanno vissuto entrambi il lato felicemente anarchico della rete: il primo ha tentato di recuperare terreno dopo le affermazioni sui laureati sfigati, finendo con l’essere riempito di insulti sul suo stesso blog, il secondo è rimasto vittima di un tormentone spontaneo e inarrestabile nato su Facebook. La genesi risale, a quanto pare, all’ingenua dichiarazione di un fan – inutilmente rimossa – sulla official page dello scrittore: “a me Moccia piace. E poi è figlio di Pipolo. Se non vi piace andate su altre pagine. Non capisco.” In poche ore il “non capisco”, declinato in prosa e in versi in ogni possibile variante, ha invaso la bacheca della pagina di Moccia trasformandosi in un liberatorio sberleffo di massa. L’autore, furibondo, argina i facinorosi bloccandoli, ma non riesce a far cessare il fiume di commenti in bacheca.
Nemmeno noi abbiamo capito tante cose. Non abbiamo capito perché oggi Repubblica.it abbia deciso di celebrare San Valentino con «l’inevitabile intervista a Federico Moccia», avviando con il noto humour montiano un’iniziativa intitolata #amore140: «perché San Valentino è pur sempre San Valentino. Ma senza per forza fermarsi alla passione del cuore: perché amore può voler dire un sacco di cose». Proprio adesso Repubblica parla di sms e social network come “mezzi per veicolare le emozioni”, lasciando interdetti anche per l’uso del termine “veicolare”: vengono subito in mente emozioni veicolabili e non veicolabili, tra cui forse gli insulti che affollano la bacheca dell’inevitabile scrittore. Uno dei più importanti quotidiani italiani dà segni inequivocabili di amminchiamento (così direbbe Camilleri), trovando in Moccia il suo maître à penser.
Non avevamo capito nemmeno la ragione per cui Alemanno, prima di essere travolto dal generale Inverno, abbia pensato di interpellare Moccia invece di rimuovere senza esitazioni le tonnellate di lucchetti dell’amore che hanno infestato Ponte Milvio su istigazione dello scrittore. Non avevamo capito perché Veltroni, prima di Alemanno, avesse fatto piazzare romantiche catenelle tra le colonnine pur di non rimuovere la ferraglia. Non avevamo compreso il motivo per cui l’autore di “Tre metri sopra il cielo”, contrariato, abbia bollato la decisione di eliminare i lucchetti come un motivo di vergogna personale. Non abbiamo capito perché una moda molesta sia stata interpretata come cultura, e rispettata, mentre in Italia la cultura moriva di stenti. Moccia diventava un fenomeno di costume mentre l’archivio del Vasari veniva venduto ai russi, faceva incassare le librerie e i cinema mentre a Pompei crollava la Casa dei gladiatori, faceva leggere adolescenti sempre più ignoranti parcellizzando i sentimenti in segmenti elementari facili come il Lego.
Il “non capisco” day ha suscitato reazioni contrastanti: facezia stupida o irriguardosa nei confronti dei fan per alcuni, segnale confortante per altri. Certo è che internet ha spesso anticipato la realtà, e un gioco non è mai fine a se stesso: dall’onda scherzosa sulle colpe di Pisapia ha preso corpo la sconfitta della Moratti, dalle proteste degli internauti è derivato il dietrofront di Trenitalia sulle politiche classiste dei nuovi Frecciarossa. Gli esempi, che toccano anche la polemica sui “figli d’arte” (cui Moccia, a quanto pare, appartiene), sono sempre più numerosi.
In un raro momento di ottimismo vogliamo pensare che i processi ludici della rete siano uno dei sintomi di un più ampio processo di saturazione, che certo non tocca solo i lucrosi sentimentalismi di Federico Moccia ma investe tutti i simboli mediatici della “cultura” di massa. Alcune librerie coraggiose hanno dichiarato di non voler vendere i libri di Bruno Vespa, pure a costo di rischiare l’estinzione commerciale. Chi frequenta le librerie, quelle odorose di carta e d’inchiostro, sa che il vero lettore scavalca infastidito le colonne di Volo, Vespa e Moccia per concentrarsi sui libri veri. Persino su quelli d’amore, a volte.