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I mostri e l’abisso

Creato il 22 giugno 2012 da Riccardomotti @RiccardoMotti1

Ieri sera è stata inaugurata al Martin Gropius Bau, a due passi dalle luci di Postdamer Platz, una mostra dedicata alle opere della fotografa americana di origine russa Diane Arbus. Organizzata dalla galleria francese Jeu de Paume, in collaborazione con la Estate of Diane Arbus LCC di New York e Foam Photography Museum di Amsterdam, la mostra è una raccolta di 200 fotografie scelte tra i suoi lavori più riusciti, affiancate per l’occasione da alcuni inediti. Si è optato per un’insatallazione volutamente povera, che si limita ad esporre le opere senza alcuna descrizione, contraddistinte esclusivamente dal titolo che la Arbus ha scelto per loro.

I mostri e l’abisso

La scelta è felice, perchè permette alle fotografie di emergere nella loro originale durezza. In un rigoroso bianco e nero, le figure emergono dallo sfondo e ti colpisono dritto al cuore, che non può restare indifferente davanti ad una simile inadeguatezza. “La fotografa dei mostri”, così Diane Arbus è stata ingiustamente nominata da quel mainstream culturale sempre alla ricerca di una formula ad effetto, la quale spesso non ha nulla a che vedere con il contenuto che si vorrebbe veicolare. Vero, i soggetti delle fotografie sono spesso dei freaks, che per una ragione o per l’altra stanno al di fuori di ciò che la società americana degli anni ’60 giudicava come “normale”. Artisti del circo, persone affette da nanismo o deformi, personaggi peculiari e travestiti sono infatti tra i soggetti preferiti dell’artista. Ma affianco a questi si possono trovare coppie, bambini, famiglie della media borghesia, attivisti politici che si preparano ad una manifestazione repubblicana. L’umanità in quanto tale è il soggetto della Arbus, che non ricade mai in quella sorta di voyerismo compiaiuto della diversità che l’infelice definizione sembrerebbe suggerire.

I mostri e l’abisso

Quello che le sue fotografie testimoniano è una ricerca affannosa dell’impulso vitale, in tutte le forme in cui esso si presenta nella società del suo tempo. Il fatto che esso si manifesti soprattutto, ma non solo, in soggetti che ne stanno ai margini non fa altro che far risplendere l’intento della Arbus nella sua genuina spontaneità. Non c’è un singolo scatto che lasci indifferente: quei volti colpisono come un pugno nello stomaco ogni osservatore che sia abbastanza attento per cogliere il contrasto tra quella tensione alla vita e l’impulso alla morte scritto sulla massa di volti indifferenti che popola le nostre città ogni giorno, ogni ora.

Se i lavori della Arbus non spiccano, a mio parere, per abilità tecnica, sono al contrario stupefacenti per quanto riguarda l’intensità che ne traspare, che mostra l’assurdità degli schemi di pensiero imposti arbitrariamente dalla società. Essa sta cercando l’essenza più nasosta dell’impulso dionisiaco alla vita. Non stupisce sapere che Diane non si limitasse a rubare scatti a queste persone, ma instaurasse un rapporto personale, cercando di comprendere la loro maniera di osservare quel mondo che spesso li faceva sentire diversi, non li riteneva degni di essere considerate persone “normali”.

I mostri e l’abisso

Non voglio reiterare la solita lezioncina, spesso spiacevolmente moralistica, che spiega come ciò che è “normale” venga sempre stabilito mediante un atto di oppressione, il quale vede una maggioranza decidere per una minoranza. Tuttavia, non posso evitare di notare come il lavoro della Arbus sia un manifesto vivente contro la discriminazione, fatto di sguardi e sorrisi, che risulta ancora più commovente se si pensa alla tragedia dell’artista che ha voluto regalarcelo, suicida forse perchè stanca di vivere in un mondo popolato da mostri. D’altronde, come ci insegna Nietzsche, “chi lotta con i mostri badi a non diventare mostro a sua volta. E, se guardi a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”.

Riccardo Motti


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