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I nocchieri del giornalismo e le potenzialità di Twitter

Creato il 21 marzo 2013 da Dave @Davide

Anche se secondo il report The State of the News Media (pubblicato annualmente dal Pew Research Center per valutare lo status del giornalismo statunitense) il 60% degli americani sa poco o nulla della crisi dell’industria editoriale, il ritratto del settore è preoccupante: nello scorso decennio il personale impiegato nelle redazioni è calato del 30%, arrivando sotto quota 40.000. Non accadeva dal 1978, quando alla Casa Bianca c’era Jimmy Carter, l’amministrazione lavorava per gli accordi di Camp David e un cinquantatreenne di nome Giorgio Napolitano, dirigente del Pci, era il primo comunista con un visto per visitare il Paese.

Non è l’unico dato degno di attenzione: il 31% degli americani – si legge – ha deciso di fare a meno delle sue fonti informative di fiducia, giudicate meno attendibili rispetto al passato. In altre parole, il nodo gordiano della crisi dell’editoria è rappresentato non soltanto da ricavi pubblicitari in drastica decrescita, ma anche da un abbassamento degli standard di qualità e quantità a cui i lettori erano abituati, a sua volta indotto da dolorosi tagli alle risorse umane e materiali.
Lo stesso discorso vale per l’Italia, dove – complici, in parte, una corporazione chiusa in se stessa e un arroccamento su posizioni assurdamente conservatrici – la quasi totalità dei principali produttori di media è ricorsa a drastici tagli di personale, cassa integrazione e prepensionamenti. Il risultato: le assunzioni di nuovi giornalisti, già difficoltose di per se, sono praticamente ferme.

Dietro questo panorama spirale di stagnazione, però, si muove silenziosamente un esercito di aspiranti professionisti e praticanti giornalisti che racconta il mondo senza i crismi dei media tradizionali: sono i Twitter-giornalisti.

Andy Carvin

Andy Carvin

Uno dei decani del mestiere è Andy Carvin, quarantenne di Boston, esperto di social media sul network radiofonico americano NPR. Carvin si è costruito una fama di guru delle community online twittando le vicende della Primavera araba del 2011. L’anno scorso, parlando al keynote speech del Festival internazionale del giornalismo di Perugia, definì così il suo ruolo di senior strategist:

Il mio ruolo alla NPR è quello di sperimentare, di aggiustare, di provare cose nuove. Un’altra cosa che il titolo esprime è che non sono parte di una gerarchia tradizionale: non vedete “editor”, “produttore” o “giornalista” vicino al mio titolo lavorativo perché il tipo di lavoro che faccio è così relativamente nuovo per una redazione che è difficile associarmi a una posizione precisa

Nel dicembre 2010, agli albori delle proteste in Tunisia, Carvin iniziò a leggere tweet di suoi contatti che parlavano di un’immolazione di protesta di un venditore di strada a 200km da Tunisi, la capitale del paese. L’intuizione che vide in questo coro di voci di blogger e giornalisti improvvisati i primi report di una serie di proteste internazionali fu tutta sua: al tempo nessuno dei media tradizionali copriva la storia. Carvin invece arrivò su questo e gli altri avvenimenti della Primavera con un tempismo senza precedenti. I suoi tweet – pur limitati a 140 caratteri – raccontavano le storie dei protagonisti, le ultime vicende e le prospettive delle rivolte; lo facevano con ore (se non giorni) di vantaggio rispetto all’editoria mainstream. Sempre a Perugia, Carvin chiamò “servizio pubblico” questa sua particolare attitudine al “giornalismo partecipativo” (parole sue) sulla piattaforma Twitter.

In un’intervista a Repubblica seguita alla sua apparizione dichiarò:

Sono convinto che le persone che interagiscono con me su Twitter siano anch’esse coinvolte in una sorta di servizio pubblico. Impegnano il loro tempo, le loro competenze e molto altro per rendere il mio storytelling più efficace e più accurato. […] Ed è straordinario che questa gente lo faccia come volontariato. E’ un atto civico. Spesso non diamo al pubblico abbastanza riconoscimento per quel che cerca di fare aiutandoci a creare un giornalismo migliore. […] Cerchiamo di ricordarcelo quando sembra tanto più facile liquidare i ‘citizen journalist’ come persone di cui non ci si può fidare. Fanno quel che fanno perché anche per loro è importante.

Si parva licet, mi sento molto in linea col contenuto e lo spirito espresso in queste righe. Non si pretende, ovviamente, che tutti siano giornalisti, né che chiunque possa sostituire un professionista con anni di esperienza lavorativa nel settore. Quello che è importante sottolineare, piuttosto, è che un giornalista (o praticante tale) che sfrutta le potenzialità delle community online non vale necessariamente meno della figura professionale tradizionale.

La disintermediazione di questi strumenti, peraltro, si sposa in maniera efficace con le esigenze più immediate del reporting: prendiamo il caso, molto celebrato poco tempo fa, della smentita di Filippo Sensi – vicedirettore del quotidiano Europa, @nomfup su Twitter – ad una dichiarazione di Monti; un mese fa il premier della precedente legislatura dichiarò, in un revival pre-compromesso storico: “Dubito che la signora Merkel voglia che un partito di sinistra vada al governo” e “La Merkel teme l’affermarsi di partiti di sinistra soprattutto in un anno elettorale per lei”.

Sensi chiese conto di quella linea direttamente a Steffen Seibert, il portavoce del Cancelliere tedesco, che su Twitter rispose negando convintamente: “La Cancelliera Merkel non ha commentato ora le elezioni italiane e non l’ha mai fatto nemmeno in passato”.

.@nomfup Kanzlerin #Merkel kommentiert jetzt den italienischen Wahlkampf nicht und hat das auch in der Vergangenheit nicht getan.

— Steffen Seibert (@RegSprecher) 20 febbraio 2013


Quella che fino a un minuto prima era stata una notizia ripresa da tutti i giornali italiani, divenne improvvisamente una menzogna da ridimensionare e correggere. E il tutto nello spazio di un messaggino istantaneo di 140 caratteri.
Il fact-checking di Filippo Sensi, impeccabile da un punto di vista tecnico-giornalistico, gli fa onore anche sul piano deontologico. Rimane però un interrogativo non secondario: perché nessun altro quotidiano ha avuto la stessa idea?

I mezzi ci sono – l’abbiamo appurato – e la qualità delle notizie, con il dovuto criterio, può trarre solo giovamento da un uso più esteso e consapevole dei nuovi media inclusivi.
Con un settore che registra perdite (e annessi licenziamenti) esponenziali anno dopo anno, non resta che volgersi ai nocchieri che governano la nave del giornalismo italiano: da qualche tempo la costringono a navigare in acque sempre più basse e limacciose, ma dovranno giocoforza virare verso mari inesplorati, finendo di temerli in via pregiudiziale.

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