Due settimane fa, durante il viaggio d’istruzione in Friuli incentrato soprattutto sui luoghi della Grande Guerra, in una mattina piovosa abbiamo visitato il sacrario di Redipuglia.
I ragazzi hanno affrontato la visita con una serietà e un raccoglimento che difficilmente siamo disposti a riconoscere a degli adolescenti: probabilmente nelle loro orecchie e nei loro pensieri risuonavano le parole di dolore di Remarque e di Ungaretti, le descrizioni dell’immane massacro lette sui libri di storia divenute concrete in quella lunga teoria di nomi incisi sulle gradinate o in quelle enormi lapidi che ricordano quanti non hanno più un nome.
La guida, dopo aver illustrato il sacrario, per far comprendere ai ragazzi che i soldati provenivano da tutte le regioni d’Italia, li ha invitati a cercare il proprio cognome fra i nomi dei caduti.
E allora i ragazzi sono ridiventati ragazzi e hanno cominciato a percorrere le gradinate a piccoli gruppi, seguendo l’ordine alfabetico, leggendo ogni nome ed era con una punta d’orgoglio che molti si soffermavano davanti al loro omonimo (che magari, per un gioco del destino, aveva anche il nome proprio del padre o del nonno).
Li ho osservati e mi sono resa conto che non era solo un gioco.