Ringrazio Vanessa Roghi e “minima&moralia. Un blog culturale di minimum fax” per la gentile concessione alla pubblicazione anche su questo sito.
“Quando si pensa al rapporto tra cinema e Shoah solitamente ci si riferisce innanzitutto ad opere quali Schindler’s List o La vita è bella, e naturalmente al loro successo. Conseguentemente, si ha l’ingannevole impressione che la Shoah sia un tema particolarmente caro alla cinematografia, anzi, per molti fin troppo “sfruttato”. Così Marcello Pezzetti introduce l’ultima ricerca curata da Guido Vitiello e Andrea Minuz, La Shoah nel cinema italiano (Rubbettino 2013), a partire proprio da uno dei più significativi fraintendimenti ad oggi presenti nel nostro rapporto con il racconto dello sterminio degli ebrei d’Europa, quello appunto, legato a una presunta e massiccia diffusione di film che in un modo o nell’altro avrebbero posto al centro della loro trama l’Olocausto. In realtà, e soprattutto per quanto riguarda il cinema, la ricezione della deportazione e dello sterminio è stata a lungo un tabù generato essenzialmente da due cause: il voler dipingere gli italiani come brava gente, l’aver omologato la deportazione all’epopea resistenziale, facendo dell’antifascismo una chiave di lettura complessiva di un passato che non passa, come dimostrano, anche, le polemiche di questi giorni sui partigiani, Priebke e via Rasella (qui).
È Andrea Minuz a ricostruire il paesaggio cinematografico degli anni dell’immediato dopoguerra, anni nei quali l’idea che gli italiani, in fondo, non abbiano avuto responsabilità nella deportazione degli ebrei si diffonde grazie alla stampa periodica e al cinema, appunto. Minuz ricostruisce alcune storie di censura, prima fra tutte quella operata su un film polacco, L’ultima tappa (Ostatni Etap). Scritto e diretto da Wanda Kakubowska nel 1947, “girato nei luoghi dello sterminio prima che molti campi venissero distrutti o convertiti in memoriali, L’ultima tappa è un film che oggi ha assunto un ruolo fondativo ed è unanimemente considerato come uno dei primi, più importanti contributi a una costruzione cinematografica della memoria della Shoah”. Presentato nel 1948 alla nona edizione della Mostra del cinema di Venezia (per inciso la stessa manifestazione che nel 1941 aveva accolto trionfalmente Goebbels e il film Ich klage an, inno allo sterminio dei malati di mente), L’ultima tappasubisce una strana sorte: osannato dalla critica internazionale, non viene distribuito, causando le rimostranze della produzione che si lamenta dei danni economici derivanti da tale ritardo.
Negli anni in cui il cinema neorealista si impone all’attenzione del pubblico occidentale, la censura appare strana e immotivata ai produttori, ma, si legge nelle motivazioni addotte dall’ufficio preposto: “Trattasi di un film di scarso valore artistico, la cui vicenda è avvolta quasi sempre, per il suo tono violento, in un’atmosfera di incubo. La Commissione ha espresso parere contrario alla programmazione del film nelle pubbliche sale in quanto esso contiene scene truci e ripugnanti”. Il pubblico italiano non può, non deve vedere la deportazione, la violenza, la morte dei campi di concentramento. Solo nel 1951 si acconsente alla proiezione a patto che “siano eliminate tutte le scene truci e ripugnanti, sopprimendo, in particolare, quelle della iniezione letale praticata al bambino, della tortura alla donna e della donna chiamata fuori dai ranghi ed uccisa. Si riserva di dare il proprio definitivo parere circa il nulla osta alla proiezione in pubblico, dopo ulteriore revisione del film con le modifiche ed eliminazioni sopra indicate”. Il film diventa illeggibile, scrive Minuz, aprendo la strada a una lettura “universalistica” dello sterminio: la guerra è brutta, si legge tra le righe, e il prezzo pagato dagli ebrei è quello che hanno pagato tutti.
Interessante che la stessa sorte la subisca, pochi anni dopo, anche il capolavoro di Alain Resnais Notte e nebbia, censurato non tanto nelle immagini, quanto nel testo, al fine di generare uno sgomento riconoscibile da tutti. Un sentimento cristiano di condivisione delle atrocità della guerra, che fa dimenticare l’originalità della questione ebraica.
Buoni sentimenti, e l’idea che gli italiani, alla fine, siano stati anch’essi vittime della barbarie nazista: motivo ricorrente che trasforma subito i pochi film prodotti in Italia sull’argmento in veri e propri film di genere.
Minuz cita il caso di Accidenti alla guerra!, diretto da Giorgio Simonelli: “Michele Coniglio (Nino Taranto) divide l’appartamento con un partigiano ricercato dai tedeschi e, indossata una divisa da SS per fuggire alla cattura, viene scambiato per il capitano Von der Papen e inviato in missione a Baden Straden, isolata cittadina di una Germania di fantasia dove, gli si dice, «è stato creato un Istituto di eugenica» (scritto con la “k”, come vediamo nell’inquadratura che mostra il cancello dell’istituto). L’Istituto, «fondato per il miglioramento della razza germanica», si presenta come una specie di stazione termale. Giardini, piscine con belle ragazze ariane stese al sole in costume da bagno con la svastica sul petto; oppure che giocano a tennis, vanno in bicicletta tutte assieme o si dedicano all’«idroterapia», come ci spiega l’istitutrice. Una festa per gli occhi di Michele Coniglio che al suo ingresso esclama «ma quanto è bella questa missione!». La missione consiste nel mettere al servizio della Patria germanica le sue doti di infaticabile amatore, accoppiandosi con una gigantesca «vergine vichinga» dalla quale «si possono ricavare magnifici soldati»”. Eugenetica, mito della razza, messi al servizio della commedia degli equivoci, contribuiscono così a diffondere l’idea che nessuno in fondo abbia mai preso sul serio le leggi razziali. È stato tutto uno scherzo.
Seguono quelli che Pezzetti definisce “gli anni del grande silenzio”, scalfiti da alcuni film sulla resistenza nei quali la questione ebraica appare come sfondo, tema marginale (se si esclude Kapò di Gillo Pontecorvo). E neanche il processo Eichmann, che nel 1961 porta in TV per la prima volta un responsabile della Shoah, genera alcuna riflessione approfondita sul ruolo degli italiani nelle deportazioni, né una produzione cinematografica all’altezza del tema e della sua complessità. Mentre sulla ricerca storiografica pesano come una pietra tombale le parole di Renzo De Felice per il quale “l’antisemitismo e l’ideologia razziale furono proprio ciò che distinse il regime di Hitler da quello di Mussolini. Il primo era uno «Stato razziale», il secondo no. L’Italia fascista fu «fuori del cono d’ombra dell’Olocausto». Il primo uccise milioni di ebrei, laddove il secondo, per lo meno fino all’autunno del 1943, quando fu di fatto smantellato, non deportò nessun ebreo nei campi; e anche dopo l’autunno del 1943 avrebbero perso la vita nel genocidio soltanto («soltanto») circa 7.000 ebrei italiani”.
Neppure la Rai fa niente per colmare questa lacuna, e bisognerà aspettare il 1979, e una fiction americana, perché, per la prima volta, un prodotto audiovisivo scalfisca la cortina di fumo che ha avvolto la memoria della Shoah nell’immaginario italiano. La fiction è Holocaust, nel libro ne parla Emiliano Perra. Malgrado il plot abbastanza semplice, Holocaust è ancora oggi considerato uno spartiacque. In Germania scatena un dibattito che va avanti per mesi, ed è considerato come la prima presa di coscienza nazionale delle responsabilità tedesche nello sterminio.
In Italia no: ancora una volta prevale una lettura da un lato riduttiva (il solito polpettone americano), frammista a una certa dose di autocompiacimento (gli italiani non facevano così), complicata dalla difficile relazione fra ampi settori dell’opinione pubblica nei confronti dello stato di Israele (ecco, gli ebrei si comportano così dopo che hanno subito la guerra e le deportazioni).
Negli stessi anni, racconta Vitiello, il cinema di genere trova nel nazismo un fertile terreno di immagini sado-maso, e assurdo a pensarci, il rapporto fra vittime e carnefici si erotizza. Vitiello cita Susan Sontag, che, in Fascino fascista si domanda: “Nella letteratura pornografica, nei film e nei vari aggeggi prodotti in tutto il mondo, e specialmente negli Stati Uniti, in Inghilterra, Francia, Giappone, Scandinavia, Olanda e Germania, le SS sono divenute un referente dell’avventurismo sessuale. L’immaginario del sesso sfrenato è in gran parte collocato sotto il segno del nazismo. […] Ma perché? Perché la Germania nazista, che era una società sessualmente repressiva, è diventata erotica?”. E’ l’onda lunga del nuovo discorso sul nazismo, “come part maudite della cultura occidentale, irruzione di forze ctonie e dionisiache, vaso di Pandora di tutte le perversioni e le sfrenatezze. Questa nuova percezione è all’origine di opere il cui tratto estetico dominante è la commistione di kitsch e immagini di morte” che rende possibile il cinema nazi-erotico, di cui, sicuramente, Il portiere di notte di Liliana Cavani e La Caduta degli dei di Luchino Visconti, sono gli esempi più noti e raffinati.
Certo “una storia situata in un campo della morte nazista non attira, a priori, il pubblico”. Scrive Pezzetti “Di norma, un produttore a fatica si assume un simile rischio e in realtà ben pochi hanno accettato di correrlo. Dal 1945 ad oggi, si possono individuare poco più di settecento opere facenti riferimento al tema, sia in Europa che negli Stati Uniti, con un picco nel biennio 2007-2008, che vede l’uscita di ben cinquantacinque film. Fino all’inizio degli anni Settanta, la maggior parte di queste si deve alla cinematografia dei paesi comunisti, in particolare a quella polacca. Del numero totale, tre quarti è stato prodotto in Europa, mentre gli Stati Uniti, primi produttori del cinema occidentale, fino alla fine degli anni Settanta hanno realizzato meno opere della Francia. La principale caratteristica di questi film è data dal fatto che la maggior parte di essi è ben lontana dall’esprimere ciò che noi oggi sappiamo sul tema grazie alla storiografia, alla letteratura e, a partire dalla metà degli anni Novanta, alle testimonianze. (…) In genere la Shoah ha solo una funzione secondaria: viene utilizzata per meglio drammatizzare la recita filmica. È più evocata che analizzata; svolge, insomma, solo la funzione di quadro di fondo”.
Tutto cambia a partire dall’uscita di Shindler’s List di Steven Spielberg (1993) che, scrive Claudio Gaetani “ha segnato decisamente il modo attraverso cui il medium a livello globale, e l’opinione pubblica di conseguenza, si sono da quel momento in poi relazionati al tema. Solo per quel che concerne le opere di finzione (non contemplando, cioè, i film documentari), e senza distinguere tra realizzazioni di carattere cinematografico o prettamente televisivo, l’arco temporale che inizia con Jona che visse nella balena (1993) di Roberto Faenza e si conclude col visionario e personalissimo confronto con la tragedia che è costretto a vivere il surreale protagonista di This Must Be the Place (2011) di Paolo Sorrentino, si caratterizza per una media di una realizzazione all’anno sul tema; in breve, un numero di produzioni di gran lunga superiore a quante hanno visto la luce nell’arco di tempo che separa questo ventennio dalla fine del Seconda guerra mondiale”.
Cambia la prospettiva da cui si guarda alla Shoah: cade il primato della politica, si diffonde l’idea che i buoni possono trovarsi ovunque e non solo fra i partigiani, anzi i partigiani vengono dipinti in modo ambiguo e i fascisti buoni impazzano, da Perlasca alle vicende legate alle Foibe nella fiction Rai Il cuore nel pozzo.
Ma il film che riceve maggiore attenzione e consensi è indubbiamente La vita è bella (1997): i giudizi sono contrastanti “dagli Stati Uniti fino a Israele - scrive Giacomo Lichtner- si formarono due campi abbastanza ben delineati: uno quasi censorio; l’altro acriticamente elogiante. Entrambe le prospettive riflettevano un’ampia gamma di analisi. Tra i detrattori, ci furono numerose tirate deliranti come quella di David Denby su «The New Yorker» che accusò Benigni di «negazionismo benigno» o quella meno nota di Sergem Kaganski sulla rivista francese «Les Inrockuptibles», che concluse: «Le favole sulla Shoah dovrebbero essere proibite [...]. Quando le élite intellettuali sguazzano nella confusione semantica [...] i falsificatori della storia vincono una battaglia nella loro dubbia guerra». Certo è che La vita è bella, come Notte e nebbia, o L’ultima tappa censurata, appare più come un grido universale contro la guerra che non la tanto attesa presa di coscienza italiana sulla storia dei suoi cittadini ebrei. Per dirla con Jean Luc Godard “se Benigni crede nella premessa dietro al suo titolo, perché non ha chiamato il film La vita è bella ad Auschwitz”.
Nel 2000 con l’istituzione del Giorno della memoria, la Shoah, inizia a “dover” essere ricordata per legge, ma il cinema non dà segnali importanti di cambio di rotta: “Il Giorno della Memoria nelle intenzioni indicava un forte investimento per la costruzione di una sensibilità fondata sul rapporto con il passato” scrive Claudia Gina Hassan nel saggio che ricostruisce le reazioni della stampa al 27 gennaio. Tuttavia “oggi a tredici anni dalla sua istituzionalizzazione non possiamo certo parlare di memoria corale, né tantomeno di memoria unitaria”.
Nel 2006 “lo scrittore Alessandro Piperno dichiara di essere ostile alla Giornata della Memoria «non per quello che rappresenta ma per quello che è diventata». Critica l’elemento estetizzante del ricordo e in più denuncia l’ambivalenza di chi difende gli ebrei morti e fa diventare nazisti gli israeliani. Nel 2012 nuovamente s’interroga sul valore della memoria e sulla capacità dei figli e dei nipoti dei sopravvissuti di trasmettere l’orrore del genocidio. Un articolo che è salutato con queste righe da«Informazione corretta»: «Non ci risulta che Alessandro Piperno sia un esperto di Memoria e Shoah. È già più che sufficiente che scriva romanzi, cosa che gli riesce meglio, dato che vince prestigiosi premi. Pubblichiamo il pezzo per dovere di cronaca anchese, in quanto a Shoah, preferiamo affidarci ad altri interlocutori»”. In questo clima di perenne guerra delle memorie il caso del mancato Museo della Shoah in Italia diventa emblematico. Ne scrive Robert Gordon. Il Museo, il cui progetto è stato varato dalla giunta Veltroni, avrebbe dovuto sorgere a villa Torlonia, ex dimora della famiglia Mussolini.
“Data la complessità dei fattori, i delicati negoziati e gli investimenti che sono confluiti nel progetto per un museo italiano dell’Olocausto a Roma, potrà forse non sorprendere il fatto che il progetto non sia stato ancora portato a termine. In effetti, proprio questa sua incompiutezza – il mancato museo della Shoah – costituisce un utile indicatore della perseverante vitalità e allo stesso tempo incertezza della risposta italiana all’Olocausto. Nel frattempo, in vari luoghi del centro di Roma dal 2010 in poi, sono spuntati dozzine di sanpietrini con incisioni – nomi, indirizzi, luogo di arresto, data di morte ad Auschwitz e nelle Fosse Ardeatine, o a volte in luoghi sconosciuti. Sono le cosiddette Stolpersteine – le pietre d’inciampo – dello scultore tedesco Gunter Denmig; micro-lapidi “scandalose”, a rasoterra, memoria che viene letteralmente dal basso, che ci fanno inciampare negli orrori della Shoah, mentre la storia dall’alto, l’istituzione del museo della Shoah rimane per ora ancora un cantiere chiuso”. Oggi 16 ottobre 2013, a 70 anni dalla deportazione degli ebrei romani dal ghetto, il rapporto fra gli italiani e il proprio passato fascista e razzista continua ad essere un cantiere in buona parte chiuso.
La favola degli italiani brava gente è durissima a morire, anche grazie al cinema.