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Ad AnnoUno ieri esibizione di paradossi dello spregiudicato Luttwak. Si strappa platealmente l’auricolare per dire No agli argomenti della giovane islamica in studio. Lo fa più volta e curiosamente Giulia Innocenzi su limita a contestarlo educatamente ma non gli taglia il collegamento. Per Luttwak il velo dell’islamica in studio è un segno di identità paragonabile alla svastica. Addirittura. Come il velo delle suore cattoliche? O come tingersi i capelli di biondo? O come portare la coppola o il borsalino? La contro-obiezione di chi viene in soccorso di Luttwak è: “Ma noi siamo libere di colorare i capelli o non colorarli”. Un po’ vero. Un po’. Un po’ più libere. Fino ad un certo punto. Se non si è conformi ai modelli in Occidente non si rischia né di essere uccisi né di essere diseredati e cacciati da casa. Si rischia al più la solitudine, l’irrisione e il bullismo. Comunque qualche differenza c'è. E’ bene non rispondere alla faziosità para-razzista con la faziosità di segno contrario di chi nega ogni differenza. Infatti in Occidente quasi tutti (me compreso) siamo felici di non vivere in un Paese islamico pur relativamente tollerante che sia. Per quanto mi sforzi di entrare nelle ragioni dell’altro, mi è difficilissimo però prendere sul serio il secondo spregiudicato paradosso del divo Luttwak. Gli si fa notare che la civile America pratica spregiudicatamente la tortura: minacce di esecuzione, privazione del sonno, immersione in acqua per procurare panico da annegamento (waterboarding). Per conservare un minimo di stima sulla intelligenza di Luttwak avrei preferito una giustificazione del tipo: “Se anche una sola tortura è servita ad evitare un attentato terroristico, ben venga la tortura”. Un corollario possibile: “Comunque i sospettati non saranno certamente angioletti. O anche: “Al massimo ci saranno un paio di innocenti fra centinaia di torturati; pazienza”. Si sarebbe potuto contro-obiettare: “Ma questo scredita gli Usa, indebolisce la ragioni della democrazia e finisce per fornire alibi al terrorismo”. Sarebbe stato un utile dibattito. Niente di tutto questo però. Luttwak invece dice: “Non so se il waterboarding possa chiamarsi tortura. A queste pratiche vengono sottoposti i piloti americani. A scopo di esercitarsi al peggio in caso di cattura”. Mi assale il dubbio di averlo frainteso. Ciò che i piloti americani scelgono consapevolmente di subire in addestramento, sapendo – immagino – di poter in ogni momento dire stop, magari rinunciando a progressi di carriera , è davvero confrontabile all’arbitrio assoluto della tortura? Ma sì, ho capito bene. Luttwak ripete il suo spregiudicato concetto. Addestramento e tortura sono la stessa cosa. Come velo islamico e svastica. La ragione nel mondo si va appisolando.
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