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I “piccoli” svantaggi di un’economia feudale e di rendita…

Creato il 10 marzo 2011 da Fugadeitalenti

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Con la consueta lucidità che lo contraddistingue, Francesco Giavazzi ha tracciato un quadro, realistico quanto impietoso, dell’economia italiana (editoriale su “Il Corriere della Sera”). Un’economia, diciamo pure, “rovesciata”: in fatto di ricchezza privata, la nostra è infatti pari a quasi otto volte il reddito. In Germania il rapporto è di sei volte, in Francia i 7,5 volte. Ma se guardiamo alla crescita, il quadro si capovolge drammaticamente: in un decennio il reddito delle famiglie italiane è calato del 4%. In Francia, in Germania e nella media dell’Eurozona, annota Giavazzi, è cresciuto fra il 5 e il 7%.

Lo squilibrio rilevante non è fra Stato e privati. E’ nel modo in cui i capitali si sono accumulati e come essi sono impiegati. Troppo spesso sono frutto di posizioni di rendita e rimangono estranei al circuito della crescita. E’ il caso di aree economiche, dove il guadagno è garantito da norme che concedono ampie riserve di attività“, osserva Giavazzi. E ora leggete con attenzione questo passaggio, veramente illuminante: “Raramente le sostanze accumulate grazie a posizioni di rendita finanziano idee nuove, che hanno bisogno di capitali per trasformarsi in imprese. Lo stesso vale per la ricchezza investita in imprese mature, le quali resistono solo perché protette dalla concorrenza, occupando uno spazio di mercato che impedisce la crescita di aziende più giovani e produttive“.

Stop. Giavazzi ha fotografato il male dell’economia italiana nel suo cuore, arrivando al perché questo Paese rischia -molto presto- un affondamento: “affinché il patrimonio accumulato possa diventare un motore della crescita è quindi necessario abbattere rendite e protezioni, consentendo alla ricchezza di accumularsi là dove è più facile che finanzi lo sviluppo“.

NEW MONEY“, in una parola: gli old money dei quattro “papponi” che coltivano rendite di posizione per sé e per i propri figli non servono proprio a nulla, se non a far ingrassare sé stessi, la propria famiglia, i propri cooptati e le proprie concubine. Giavazzi propone le liberalizzazioni, quale antidoto a quest’economia “feudale”.

E perché non dotarsi pure di una politica industriale degna di questo nome, che anziché regalare prebende alle solite lobby così ben rappresentate in un Parlamento di “cooptati”, non guardi con lungimiranza ai settori produttivi del futuro – giovani, gestiti da giovani, e ad alto tasso innovativo?

L’Italia avrà nel 2011 una crescita del Pil inferiore di mezzo punto a quella del resto dell’Eurozona, perché beneficia meno degli altri Paesi dell’euro, e in particolare della Germania, del balzo in avanti del commercio mondiale, a causa della quota più bassa di esportazioni verso le economie emergenti, che stanno registrando alti tassi di crescita, e a causa della perdità di competitività registrata nell’ultimo decennio“: così, nell’ultimo report sulle previsioni economiche intermedie dell’Ue, il Commissario Olli Rehn.

Ma non eravamo i “maghi” dell’export? Un articolo dell’Osservatorio McKinsey, pubblicato su “Corriere Economia”, sottolinea come l’anemico +1% di crescita con il quale abbiamo chiuso il 2010 sia in realtà il frutto di una media tra settori in forte rialzo, e altri settori ormai prossimi al collasso. Illuminante questa considerazione: “Anche nel Made in Italy tradizionale sono le aziende con elementi distintivi e di qualità nel design e/o nella tecnologia a emergere“. E ancora: “Vi sono almeno due freni allo sviluppo che sono specifici dell’industria italiana, e strettamente correlati: dimensioni e capacità commerciale. Le aziende italiane sono spesso sotto soglia in  termini dimensionali. E, non avendo la scala per raggiungere i mercati più interessanti, adottano un approccio opportunistico e non sistemico. Questo non consente loro di cogliere le opportunità offerte dalle economie emergenti. Non a caso in queste geografie la presenza italiana è modesta: il 69% delle nostre esportazioni è diretto verso l’Europa, meno del 15% è destinato ai Paesi in via di sviluppo, contro il 33% della Germania e il 31% della Francia. [...] Esiste una soglia critica di fatturato -variabile tra i 400 milioni e i 2 miliardi di euro- al di là della quale i tassi di crescita sono più elevati e la frequenza dei fallimenti si riduce. Per competere al pari della Germania avremmo bisogno di un numero di imprese di grandi dimensioni almeno doppio di quello attuale“, conclude l’articolo a firma di Stefano Proverbio e Francesco Lovecchio.

Dimensione aziendale e capacità innovativa: queste le pecche strutturali del tessuto industriale italiano. Su queste leve dovrebbe incidere una seria politica di (ri-)sviluppo industriale, che dovrebbe fortemente venire incentivata dal Governo, con una visione strategica e di medio-lungo termine. Pura utopia: l’unica priorità ora pare quella di riformare la giustizia… Ma dove andremo, con questa classe dirigente?

“Qualità” e “innovazione” sono due sostantivi che stanno cominciando a comparire sempre più nella terminologia utilizzata dai nostri imprenditori. Qualità e innovazione come uniche armi contro una globalizzazione che rischia di mandarci a picco, se non riusciamo ad affrontarla e a prenderla nel verso giusto.

E noi ancora qui, a consolarci pensando che il capitale accumulato negli ultimi decenni dai quattro “amici degli amici”, che vivono e prosperano grazie a posizioni di rendita -ben descritte da Giavazzi- possa salvarci. Forse salverà loro. Ma non salverà noi… Ma che futuro ha un Paese dove -dati dell’agenzia di recruitment Bachelor alla mano- ricompensa con un salario medio di 827 euro i suoi laureati? Parliamo qui dei neo-neo laureati, quelli del 2010. Non che i loro “fratelli” che hanno strappato l’ambito pezzo di carta due anni prima, nel 2008, se la passino meglio. La loro paga mensile è di 1120 euro! Andatelo a raccontare a un coetaneo tedesco… Per non parlare della tipologia dei contratti: un laureato del 2010 ha visto un indeterminato solo nel 13,3% dei casi. Il 31,1% d loro si imbatte in uno stage, gli altri si barcamenano tra contratti a progetto, di apprendistato e a tempo determinato.

Senza una vera politica industriale, e con la generazione più qualificata alla deriva salariale e contrattuale. E poi ci stupiamo se “da qui se ne vanno tutti?”…

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