Fino a tre mesi fa si poteva anche sostenere che il berlusconismo fosse in declino come il suo protagonista, che si stesse accartocciando come una foglia alla fine dell’estate o come il suo autore ormai simile al risultato di un esperimento nel gabinetto del dottor Caligari. Oggi invece abbiamo la prova definitiva che esso è vivo e vegeto e anzi ha creato una nuova antropologia e una propria ideologia peculiare all’interno del capitalismo finanziario che pare ormai imprescindibile. Guardando Renzi e ascoltandone il fraseggiare per apologhi si capisce bene quali siano i topoi fondamentali: il leaderismo mediatico come forma di autorità e succedaneo di autorevolezza, l’idea che un Paese possa essere equiparato a un’azienda, che un partito non ne sia che una branca commerciale con una dialettica interna solo di facciata, la necessità della creazione di un nemico fasullo da evocare a piacimento, che lo stile burino equivalga a spigliatezza, normalità, sincerità, che i mezzi della politica ne siano i fini. Ci rendiamo conto che il berlusconismo non solo non è morto, ma è nel suo apice, avendo conquistato tutto ciò che vi si opponeva.
Però in questi giorni vediamo con chiarezza anche un’altra cosa: che esso non ha scalzato le vecchie forme del potere, ma vi si è depositato sopra come una vernice che nasconde le ruggini. L’Italia è ormai come una vecchia nave dipinta più volte nella speranza di farla apparire nuova: l’antiruggine messo trent’anni fa da Craxi sugli assetti di potere democristiano si era ormai consumato quando è arrivato Berlusconi a cromare le parti corrose e adesso ci si prova Renzi a dare la sua mano di belletto su una struttura resa ancora più fatiscente proprio da queste successive aggiunte. Le difficoltà che già si manifestano nella formazione del governo non sono altro che il risultato di questi interventi: le “personalità” del mondo produttivo destinate a dare l’effetto ottico del rinnovamento nel quadro del Paese – azienda si sono fatte di burro perché è meglio fare affari con i pubblici poteri da posizioni defilate, gli zii della patria pure o perché covano altre ambizioni o perché non vogliono essere coinvolti in un possibile disastro. Così come gli intellettuali di riferimento intrigati dalla poltrona, ma spaventati dal fatto che non sia un divano da salotto dove poter fare gli eterni Holden.
Rimangono i giovani virgulti twitteranti che alla 141° battuta vanno in crisi, del tutto ignari della complessità, scontati personaggi di partito o il solito gruppo di vlasti, con l’aggiunta di personaggi che hanno attivamente collaborato al declino delle strutture del Paese quando non perenni portaborse di antichi sovrani scomparsi: i Moretti, i Montezemolo. Per non parlare dei banchieri come Bini Smaghi, idolo della Spinelli (proprio quella che vuole andare a Strasburgo chiedendo un passaggio a Tsipras) o la ex Bce Lucrezia Reichlin. Insomma nulla che esca fuori dal cerchio magico del potere che già conosciamo e che si riciccia come le coppie in un club privè. Niente che non sia l’ennesima riedizione del Cencelli: il verso rimane sempre quello, non basta la vernice. E i predatori di sempre sono lì a fare banchetto.
Certo l’antropologia del berlusconismo permette di smerciare per nuovo un semplice scambio di poltrone tra personaggi già collegati tra di loro, basta qualche barbaglio mediatico. Anzi qualche abbaglio. Ma non è affatto il vecchio contro il nuovo, come sarà certamente detto a scusante: sono solo i limiti delle pezze messe sopra la toppa.