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I pugni in tasca

Creato il 01 dicembre 2015 da Veripaccheri

con Paola Pitagora, Lou Castel, Marino Masè, Liliana Gerace

I PUGNI IN TASCA

Quattro fratelli vivono in una grande villa di famiglia sulle colline del Piacentino con la madre cieca. Augusto, il maggiore, è l'unico ad avere un lavoro. Giulia ne è morbosamente innamorata. Gli altri due sono Leone, affetto da ritardo mentale e Ale dal carattere nevrotico e solitario. Sarà quest'ultimo a far saltare i già precari equilibri familiari.

"Un arrivo folgorante nel cinema italiano". Così Michel Ciment parla del lungometraggio d'esordio di Marco Bellocchio, I pugni in tasca, presentato nel 1965 al Festival di Locarno. Nel 50° anniversario della sua uscita, I pugni in tasca torna, restaurato dalla Cineteca di Bologna al laboratorio L'Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì e la promozione di Kavac Film, sostenuta da Giorgio Armani.

Con I pugni in tasca, Bellocchio lancia il suo primo grido di rivolta, mettendo in scena l'autodistruzione di una famiglia sfortunata: infierisce con rabbia e disperazione contro i legami parentali e il cattolicesimo, istituzioni imprescindibili per la borghesia italiana del tempo.

Selvaggio, sarcastico, molto liberamente autobiografico, girato nelle campagne di Bobbio, porta in scena un eroe antisociale e ribelle. In equilibrio fra adesione e distacco dalla folle lucidità del protagonista, il regista, a cinquant'anni di distanza, mantiene intatta la propria modernità e carica corrosiva. "Impossibile non vedere nei Pugni in tasca una catarsi - scrive Michel Ciment, curatore del libro che accompagna la nuova edizione in DVD -, un esorcismo del passato recente di Bellocchio. L'ambiguità, la complessità della trama vanno di pari passo con l'eccezionale maturità di uno stile che rifiuta il compiacimento estetico tipico dei giovani [...]".

I PUGNI IN TASCA

L'e­sor­dio di Bel­loc­chio die­tro la mac­chi­na da presa ha tutto il gusto delle nuove on­da­te eu­ro­pee e ame­ri­ca­ne del pe­rio­do. L'ef­fi­ca­cia della pel­li­co­la ri­sie­de nelle no­vi­tà del­l'im­pian­to sti­li­sti­co, in grado di la­ce­ra­re il pas­sa­to con una messa in scena svin­co­la­ta da dogmi ci­ne­ma­to­gra­fi­ci e nel­l'ir­ruen­za con cui il re­gi­sta trat­ta temi "de­li­ca­ti" come rap­por­ti fa­mi­lia­ri, ma­lat­tia fi­si­ca e men­ta­le.

Parte del me­ri­to della riu­sci­ta del film va at­tri­bui­ta alle in­ter­pre­ta­zio­ni degli at­to­ri prin­ci­pa­li, tra le quali bril­la quel­la di Lou Ca­stel: l'al­lo­ra gio­va­ne at­to­re donò al suo per­so­nag­gio, San­dro, una ma­lin­co­ni­ca fol­lia unita a una fred­da cru­del­tà.

L'in­te­ra vi­cen­da ruota at­tor­no ad una fa­mi­glia di pro­vin­cia, un tema che in qual­che modo può esser con­si­de­ra­to at­ti­guo alla real­tà ita­lia­na. In tal modo Bel­loc­chio si av­vi­ci­na ai gran­di esor­di del­l'e­po­ca: trat­ta­re nello spe­ci­fi­co un ar­go­men­to per quan­to pos­si­bi­le pros­si­mo al­l'am­bien­te co­no­sciu­to, così da pren­de­re le di­stan­ze dalle gran­di sto­rie, con uno stile in­no­va­ti­vo e per­so­na­le. ­Attraversa me­lo­dram­ma e crudo rea­li­smo, sim­bo­li­smo ed echi di ri­vo­lu­zio­ne. Il ci­ni­smo del film è un mezzo ne­ces­sa­rio per rap­pre­sen­ta­re la pa­lin­ge­ne­si della ge­ne­ra­zio­ne che da lì a pochi anni sarà pro­ta­go­ni­sta dei mo­vi­men­ti del '68.

I PUGNI IN TASCA

L'iso­la­ta villa piacentina di­ven­te­rà una gab­bia dalla quale sarà im­pos­si­bi­le eva­de­re, un mi­cro­co­smo au­to­di­strut­ti­vo che si nutre della fol­lia dei suoi abi­tan­ti. L'u­ni­co che sem­bra riu­sci­re ad al­lon­ta­nar­si è Au­gu­sto, il fra­tel­lo mag­gio­re, il solo che con­du­ce una vita or­di­na­ria. Gli omi­ci­di che si sus­se­guo­no sono co­strui­ti in una cli­max che fa im­me­de­si­ma­re lo spet­ta­to­re nei sen­ti­men­ti vis­su­ti in quel­l'i­stan­te da San­dro. Alla morte non segue sof­fe­ren­za, non a caso, sen­ti­re­mo dire: "Que­sta casa non è mai stata cosi viva come per un fu­ne­ra­le"; letta in senso al­le­go­ri­co, la morte, che è un ta­glio netto con il vec­chio, di­ven­ta una ri­ge­ne­ra­zio­ne, un buon inizio per l'agoniata ri­vo­lu­zio­ne. Anche la ce­ci­tà della madre può esser in­te­sa in senso me­ta­fo­ri­co: è quella della vec­chia ge­ne­ra­zio­ne e della nuova so­cie­tà bor­ghe­se. La to­ta­le man­can­za di una fi­gu­ra pa­ter­na è sim­bo­lo di un vuoto di ri­fe­ri­men­ti.

Nella pel­li­co­la, la ma­lat­tia fi­si­ca di­ven­ta­ il pre­sup­po­sto per leg­ge­re la real­tà che ci cir­con­da, così come quel­la men­ta­le di­vie­ne un modo nuovo d'in­ten­de­re la vita. Colui che nel film rap­pre­sen­ta la nor­ma­li­tà cioè Au­gu­sto, non raf­fi­gu­ra la se­re­ni­tà che vor­reb­be rag­giun­ge­re San­dro, ma l'o­mo­lo­ga­zio­ne che in­ve­ce ri­fug­ge. La città, con i suoi sche­mi, di­ven­ta più clau­stro­fo­bi­ca della villa iso­la­ta, forse unico luogo in cui è per­mes­sa l'e­spres­sio­ne del pro­prio es­se­re, dove la li­ber­tà, esa­spe­ra­ta fino alla fol­lia, sarà vis­su­ta pie­na­men­te.


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