con Paola Pitagora, Lou Castel, Marino Masè, Liliana Gerace
Quattro fratelli vivono in una grande villa di famiglia sulle colline del Piacentino con la madre cieca. Augusto, il maggiore, è l'unico ad avere un lavoro. Giulia ne è morbosamente innamorata. Gli altri due sono Leone, affetto da ritardo mentale e Ale dal carattere nevrotico e solitario. Sarà quest'ultimo a far saltare i già precari equilibri familiari.
"Un arrivo folgorante nel cinema italiano". Così Michel Ciment parla del lungometraggio d'esordio di Marco Bellocchio, I pugni in tasca, presentato nel 1965 al Festival di Locarno. Nel 50° anniversario della sua uscita, I pugni in tasca torna, restaurato dalla Cineteca di Bologna al laboratorio L'Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì e la promozione di Kavac Film, sostenuta da Giorgio Armani.
Con I pugni in tasca, Bellocchio lancia il suo primo grido di rivolta, mettendo in scena l'autodistruzione di una famiglia sfortunata: infierisce con rabbia e disperazione contro i legami parentali e il cattolicesimo, istituzioni imprescindibili per la borghesia italiana del tempo.
Selvaggio, sarcastico, molto liberamente autobiografico, girato nelle campagne di Bobbio, porta in scena un eroe antisociale e ribelle. In equilibrio fra adesione e distacco dalla folle lucidità del protagonista, il regista, a cinquant'anni di distanza, mantiene intatta la propria modernità e carica corrosiva. "Impossibile non vedere nei Pugni in tasca una catarsi - scrive Michel Ciment, curatore del libro che accompagna la nuova edizione in DVD -, un esorcismo del passato recente di Bellocchio. L'ambiguità, la complessità della trama vanno di pari passo con l'eccezionale maturità di uno stile che rifiuta il compiacimento estetico tipico dei giovani [...]".
L'esordio di Bellocchio dietro la macchina da presa ha tutto il gusto delle nuove ondate europee e americane del periodo. L'efficacia della pellicola risiede nelle novità dell'impianto stilistico, in grado di lacerare il passato con una messa in scena svincolata da dogmi cinematografici e nell'irruenza con cui il regista tratta temi "delicati" come rapporti familiari, malattia fisica e mentale.
Parte del merito della riuscita del film va attribuita alle interpretazioni degli attori principali, tra le quali brilla quella di Lou Castel: l'allora giovane attore donò al suo personaggio, Sandro, una malinconica follia unita a una fredda crudeltà.
L'intera vicenda ruota attorno ad una famiglia di provincia, un tema che in qualche modo può esser considerato attiguo alla realtà italiana. In tal modo Bellocchio si avvicina ai grandi esordi dell'epoca: trattare nello specifico un argomento per quanto possibile prossimo all'ambiente conosciuto, così da prendere le distanze dalle grandi storie, con uno stile innovativo e personale. Attraversa melodramma e crudo realismo, simbolismo ed echi di rivoluzione. Il cinismo del film è un mezzo necessario per rappresentare la palingenesi della generazione che da lì a pochi anni sarà protagonista dei movimenti del '68.
L'isolata villa piacentina diventerà una gabbia dalla quale sarà impossibile evadere, un microcosmo autodistruttivo che si nutre della follia dei suoi abitanti. L'unico che sembra riuscire ad allontanarsi è Augusto, il fratello maggiore, il solo che conduce una vita ordinaria. Gli omicidi che si susseguono sono costruiti in una climax che fa immedesimare lo spettatore nei sentimenti vissuti in quell'istante da Sandro. Alla morte non segue sofferenza, non a caso, sentiremo dire: "Questa casa non è mai stata cosi viva come per un funerale"; letta in senso allegorico, la morte, che è un taglio netto con il vecchio, diventa una rigenerazione, un buon inizio per l'agoniata rivoluzione. Anche la cecità della madre può esser intesa in senso metaforico: è quella della vecchia generazione e della nuova società borghese. La totale mancanza di una figura paterna è simbolo di un vuoto di riferimenti.
Nella pellicola, la malattia fisica diventa il presupposto per leggere la realtà che ci circonda, così come quella mentale diviene un modo nuovo d'intendere la vita. Colui che nel film rappresenta la normalità cioè Augusto, non raffigura la serenità che vorrebbe raggiungere Sandro, ma l'omologazione che invece rifugge. La città, con i suoi schemi, diventa più claustrofobica della villa isolata, forse unico luogo in cui è permessa l'espressione del proprio essere, dove la libertà, esasperata fino alla follia, sarà vissuta pienamente.