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“I pugni in tasca” non sono solo quelli del giovane Bellocchio e dei suoi dolori. Il successo riscosso dall’ottima opera prima è probabilmente dovuto al fatto che più di una generazione si è ritrovata spesso a dover stringere i propri pugni in tasca, nella rabbia di un contesto familiare asfissiante, ma al tempo stesso nell’incapacità e nell’impotenza di trovare una soluzione che ponga fine alle proprie sofferenze. In realtà Sandro, il protagonista, una soluzione la trova, ed è quella rapida della violenza. Una scorciatoia, questa, che altro non è che una strada senza uscita, se non quella dell’epica e plateale uscita di scena finale. Il rapporto amore/odio con la propria famiglia è qualcosa di così forte che Ale, temendo che esso sia un ostacolo alla propria (strabordante e narcisistica) identità, realizza il desiderio di reciderlo di netto, nella falsa speranza di non sentirsi più strattonare da esso. Nel corso della sua folle “operazione di liberazione”, hanno luogo però degli avvenimenti inaspettati: impossibile non notare il fatto che sua sorella Giulia, dopo la morte della madre, ne prende immediatamente, oltre che la sua solita sedia, sembianze e pettinatura, sembrando più vecchia e somigliandole anche in quella arrendevolezza che la caratterizzava. A diffenza della costanza del rapporto di Truffaut con Antoine Doinel, il giovane Bellocchio, che qui è sostenuto dalle abili mani del montaggio di Silvano Agosti (la cui influenza è andata ben oltre il montaggio investendo l’intero stile del film, diverso dai successivi dell’autore di Bobbio), è costretto ad abbandonare molto presto il proprio impietoso alter-ego poiché estremamente distruttivo senza sfiorare qualcosa di propositivo e umano. Sarà il fratello del protagonista, molto più concreto e meno impulsivo, a cambiare davvero lo stato delle cose di quell’esistenza immobile: sarà infatti l’unico ad andarsene davvero. La spirale di violenza di Ale, invece, non può che chiudersi su se stessa e portare ad una lenta agonia autodistruttiva. Ed è perciò chiaro che da “I pugni in tasca” emerga un ritratto della ripetitività delle dinamiche familiari borghesi, connotate da un forte senso di morte, simbolizzato dal ricorrente tragitto casa-cimitero-casa nel corso del film. Una cosa è certa: dopo averlo visto, viene subito voglia di controllare se nelle tasche, dove nessun altro può controllare, si abbiano o meno i pugni stretti.