Com'è nata l'idea de "I racconti dell'orso".
Tutto
è nato dell’idea di un viaggio. Avevamo una gran voglia di prendere un
po’ di ossigeno, di allontanarci dal solito caos romano. Ci piace
pensare che in realtà tutto il film sia nato un po’ per gioco, durante
la preparazione di questo viaggio tra due amici. Abbiamo scelto la
Finlandia, perché sapevamo che c’erano parchi nazionali incredibili,
dove si può camminare per ore senza incontrare persone. Volevamo vedere
cose diverse e, contemporaneamente, girare qualcosa che somigliasse più a
una sorta di diario di viaggio che a un film narrativo vero e proprio.
C’era l’idea per questo corto, che corrisponde più o meno ai primi
dieci, quindici minuti del film. Di scritto, alla base, esisteva un
soggetto di mezza pagina, poi non abbiamo mai scritto più una parola.
L’omino rosso e il monaco meccanico nascono a dire il vero da un nostro
limite: dovendo girare tutto in due sole persone, il vero problema era
la recitazione. Prima di tutto siamo entrambi dei pessimi attori e
quindi ci è venuto in mente l’espediente del camuffamento. Abbiamo
contattato Matteo De Gregori che ha costruito la maschera del monaco e
poi, piano piano, è nato il progetto.
La libertà di realizzazione sembra essere l'elemento chiave che ha
portato al compimento del film, quanta importanza ha avuto in questo
senso il processo produttivo.
Quando
siamo arrivati in Finlandia e abbiamo iniziato a girare, ci siamo resi
conto che sarebbe stato sbagliato rinchiudere tutto il nostro film
all’interno di quel soggetto esile che avevamo. Abbiamo deciso di
liberare il film, di alterarne la struttura, di trasformarlo in un
progetto in progress che cambiava, si ampliava a seconda dei posti che
vedevamo, delle persone che incontravamo, delle suggestioni che
ricevevamo. Il film si è aperto al caso e all’eventualità. Mentre
viaggiavamo per la Finlandia a bordo di un van, erano i paesaggi stessi a
chiamarci e a guidarci verso il film che avremmo fatto. Ci piaceva
l’idea di qualcosa che avesse la stessa libertà di certi documentari (ma
non solo) lo stesso modo di catturare le piccole cose che ti capitano
davanti agli occhi: nessuna scrittura a tavolino, ma filmare sempre e
comunque, accumulando centinaia di giga di materiale. Si può anche dire
che abbiamo conosciuto la Finlandia direttamente con l’occhio della
camera. Del resto il digitale consente questo tipo di sperimentazione.
Da questo punto di vista l’unica scrittura è stata il montaggio: la
struttura del film è arrivata tutta lì. Un magma di immagini che non
aspettava altro che essere montato.
Un'altra componente fondamentale è la fattura estetica dell'opera, in
che modo avete ragionato sulla resa fotografica, che sembra nutrirsi
peraltro di un citazionismo visivo più o meno evidente - a più riprese
sembra d'intravedere "lo sguardo di Dio" malickiano -.
Le
terre nordiche in cui abbiamo girato hanno una luce incredibile.
D’estate in Finlandia, in Norvegia, ci sono le ventiquattro ore di luce,
qualcosa di davvero pazzesco. Assisti al sole di mezzanotte, a questi
crepuscoli che durano una vita, ad albe e tramonti che bruciano
letteralmente il cielo. Questo per dire che avevamo le condizioni
perfette per girare come ci piace: una luce naturale che ti commuove,
permettendoci di sfruttare soprattutto la luce crepuscolare. C’era tutto
ciò che un cineasta può sognare: incredibili distese di nebbia, laghi
piattissimi dove si rifletteva la luce del sole, i colori verdi,
accesissimi di una natura viva come non l’abbiamo mai vista. La fantasia
cromatica del rosso, per esempio, stagliava in maniera meravigliosa sul
verde circostante. Poi certo in post abbiamo lavorato per rendere il
film sempre più vicino all’estetica dell’animazione, ma non è stato
nulla di davvero stravolgente. Ci piaceva l’idea che il nostro film
somigliasse a un haiku animato di circa un’ora; per quanto riguarda “lo
sguardo di Dio” malickiano, ci lusinga molto quello che dite. Ma, ancora
più che a livello fotografico, Terrence Malick è stato un modello
soprattutto a montaggio. Del resto il suo gesto filmico è qualcosa che
ci interessa davvero molto. E’ un regista che ormai ha abbandonato
definitivamente la sceneggiatura, scrive direttamente con la macchina da
presa, impegnato com’è a far volteggiare i suoi modelli, come se fosse
ossessionato dall’idea di poter catturare l’aria.
La
scoperta del mondo da parte di un bambino è stato sempre oggetto di
riflessioni filosofiche nell'indagine circa l'essere umano - si pensi
alle riflessioni di Proust o di Gaarder - e sembra essere uno dei temi
principali del film. Questo è in qualche modo riconducibile alla scelta
di far esprimere i personaggi con onomatopee quasi neonatali.Siamo ossessionati dalle prime volte. La visione virginale di chi scopre il mondo come se non l’avesse mai visto prima, di chi si sorprende per ogni singolo raggio di luce, ci emoziona moltissimo. In fondo il nostro film voleva essere la storia di chi ha un intero mondo per sé e che, forse per noia, decide di riappropriarsene. E’ il solito discorso sulla meraviglia come condizione estatica della visione. Ma questo è arrivato molto prima dell’idea del sogno. Pensate che l’inizio e il prefinale del film, quelli con la bambina e il padre, sono state riprese completamente casuali, mai pensate per rientrare nel materiale de I Racconti dell’Orso. Tant’è che fino a due o tre mesi prima della fine del montaggio finale non c’erano nel film. Questo rende bene l’idea di come il progetto sia sempre stato in fieri. La cornice narrativa del sogno è arrivata alla fine, però ci sembrava coerente con la “scoperta del mondo” di cui parlavamo prima. C’era un’idea d’immaginario infantile già prima della comparsa della bambini, perché i nostri due personaggi li abbiamo sempre considerati un po’ come bimbi che non vogliono fare altro che giocare. Giocare a inseguirsi, giocare a fare una famiglia, e così via. Il linguaggio onomatopeico, pre-verbale dei due protagonisti, inventato da Virginia Quaranta, è assolutamente legato a tutto questo. Come a dire: quello che ci interessava era ciò che veniva prima dei codici sociali, prima della comunicazione verbale. Bisognava tornare indietro. Ai bambini, alle prime volte, alle sorprese….
La durata ambigua - 67' - è una vostra scelta o è legata a dinamiche formali.
Il montaggio, come vi dicevamo, è durato molto a lungo. Abbiamo avuto diverse versioni del film, alcune più lunghe, altre più brevi. Alla fine questa durata era quella che più ci sembrava giusta.
La vostra è una co-regia (e anche una co-fotografia): avete diviso i compiti o avete ragionato insieme su tutte le decisioni da prendere.
Tendenzialmente
abbiamo ragionato insieme, poi ovviamente, conoscendoci bene, ci siamo
affidati uno all’altro su alcuni aspetti in particolare. Di volta in
volta, le lacune di uno erano colmate dalla diversa preparazione
dell’altro, e viceversa. Veniamo da due campi, da due storie molto
differenti, ma questo non ha fatto che arricchire il film, rendendolo in
tutto e per tutto un film a quattro occhi.Sentite di appartenere alla nuova generazione di registi indipendenti che sta contribuendo alla rinascita del cinema italiano.
Il problema fondamentale del cinema indipendente italiano è che c’è poca comunicazione: ci sono tantissimi registi straordinari che lavorano ai margini, ma sono soli, lontani da tutto e tutti. E’ proprio questa solitudine a essere pericolosa, a rappresentare uno dei problemi maggiori nel nostro cinema indipendente. Per quanto ci riguarda siamo stati molto fortunati: una volta finito il montaggio del film, abbiamo ricevuto l’appoggio, il sostegno, l’aiuto di alcune persone umanamente davvero straordinarie. Mi piacerebbe qui ringraziare Claudio Romano, Elisabetta L’Innocente, gli autori di un film a noi molto vicino, “Ananke”. Sono loro che ci hanno fatto conoscere Mauro Santini che, con la sua offsetcamera, è subentrato come produttore associato de I Racconti dell’Orso, aiutandoci a diffonderlo. Una persona meravigliosa, come lo sono i suoi film…Per quanto riguarda il senso di appartenenza di cui parlate, è una domanda piuttosto difficile. Non ci sentiamo di appartenere a una corrente, anche perché non ne vediamo una chiara, definita. In Italia ci sono tantissimi nomi incredibili, spesso misconosciuti, che fanno un cinema inimitabile e potentissimo. Pensiamo prima di tutto a gente come Giovanni Columbu, Pietro Marcello, Michelangelo Frammartino, Giovanni Cioni, Salvatore Mereu e tanti, tantissimi altri.
Qual è il cinema che più vi piace.
Siamo
molto differenti come gusti e sensibilità cinematografiche. Io
(Samuele, n.d.a.) ho una formazione più cinematografica rispetto a Olmo,
che invece viene da altri mondi. Sono sempre stato un cinefilo
terribilmente onnivoro. Il cinema che amo è moltissimo, ma ho sempre
adorato mischiare l’alto con il basso, il cinema duro e puro con tante
fughe pop che riempiono molte mie serate. La regola rimane sempre una di
fronte a ciò che vedo: anteporre sempre il cuore al cervello. Piango
ogni volta che vedo “Love Exposure”, ad esempio. Posso dirti che i miei
maestri ideali sono sempre stati Rossellini, perché mi ha insegnato che
la tenerezza è un codice morale, Tarkovskij e Bresson, perché con loro,
in maniera diversa, ho capito l’importanza del tempo al cinema, Herzog,
perché lui, più di tutti, è stato e continua a essere un maestro di
vita…fermiamoci, sennò potremmo continuare per ore.
Il film uscirà nelle sale.
Ce lo auguriamo vivamente. Stiamo prendendo contatti con i distributori, vediamo cosa succederà. Sappiamo già che in Italia sarà molto difficile, ma mai dire mai…ovviamente il sogno più grande per ogni regista è vedere il proprio film su grande schermo. E’ una notizia recente, che ci rende molto felici, che The Open Reel si occuperà delle vendite estere del nostro film.
Avete nuovi progetti in cantiere. Proprio negli ultimi giorni sono iniziate ad affiorare le prime idee per un prossimo progetto. Si tratterà di qualcosa di completamente diverso rispetto all’esperienza de I Racconti dell’Orso. Qualcosa in cui poterci rimettere completamente in gioco, speriamo con la stessa freschezza, la stessa libertà del nostro primo film.
Antonio Romagnoli
