Racconto di Raffaele Riba
Illustrato da Amalia Mora
Recensione di Eleonora Rossi
Le pagine scritte da Raffaele Riba sono dense di immagini e parole inquietanti. Sono intimamente pervase da una natura che appare in avanzato stato di decomposizione, quando non è morta o mero artificio, ma che riesce a prendere il sopravvento inselvatichendo luoghi, cose e persone.
Pagine che brulicano di animali snaturati o eviscerati della loro linfa e che sembrano «estratti dalla loro vita meccanica»: esoscheletri, feti giustiziati, gusci di conchiglie, un tritone, una rana, uccelli, insetti mummificati dal sole, un gambero di fiume che si chiama Bruce Willis, un pincher che si chiama Ninon, un pappagallo brasiliano che si chiama Vlad, due gorilla rinchiusi in una campana di vetro che distruggono una copia di Aspettando Godot, centinaia e centinaia di pesci dagli occhi defunti. E poi topi, paperi e cani giganti fatti di fibre sintetiche.
All’interno di questo bestiario sono scritte le storie di tre personaggi tra loro legati – attraverso spazio e tempo (tra Parigi, Antibes e Disneyland) – e accomunati dal medesimo inutile tentativo di cambiare ciò che li circonda, e dalla disillusione, dal fallimento che ne scaturiscono.
Il fallimento di Agnés che durante il ’68 era giovane e si nutriva d’illusioni e «forse alzava le mani, forse ballava, forse evitava le manganellate». Allora «si innamorava di pensieri, cose e persone» e voleva «modificare gli anfratti più nascosti delle vite umane», «disossare la storia» e si ritrova dopo anni, sola e abbandonata a riversare il suo amore su persone e animali che non faranno altro che rinnovare la sua solitudine. Quello di Catherine che tra coscienza e incoscienza tenta di artefare la natura per dar sfogo alla propria inquietudine e impressionare, ma alla fine lascia dietro di sé solo vetri sbriciolati e qualche suggestione. La disfatta di Boris, così lontano dall’esistenza, che non ama muoversi ma a cui piace fissare l’evoluzione delle cose. E che si ossessiona fino al parossismo nel creare il disordine ed uscire dal «vicolo cieco evolutivo».
È impossibile per loro comprendere e fare proprie – per sovvertirle – le leggi che determinano il movimento della natura, che ora è la storia, ora la vita, perché questa corre, noncurante, verso la sua evoluzione e prosegue lungo il suo corso travolgendo chiunque si pone in opposizione e non si adegua.
Allora non possono che ritirarsi nell’anonimato, o farsi sopraffare da «fantasmi senza bordi, le solite ossessioni sacrificali». Oppure possono partecipare a quella raffigurazione della realtà come «nature morte con una dignità riconosciuta valorizzata al punto di diventare non solo oggetto di analisi ma pezzi d’arte filogenetica da osservare in miracoloso silenzio».
Ed è sul rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione (letteraria o artistica) che s’impernia L’eloquenza delle nature morte. Rappresentazione in cui è possibile trovare immortalati anche Pluto che ha in mano una bottiglietta di Evian (l’acqua che beveva Proust) mentre si dà fuoco, l’angelo della storia, Orfeo e la moglie di Lot trasformata in una statua di sale. Solo così i personaggi di Riba possono uscire dalla condizione di «privazione e indeterminabilità» che li affligge, ed essere strappati dall’anonimato della folla per riacquisire un significato, un senso «come un messaggio che aveva dovuto farsi carne per essere trasmesso alle genti».
Raffaele Riba è nato a Cuneo nel 1983. Con il racconto La crocifissione ha vinto la terza edizione del concorso 8×8.
Amalia Mora è nata a Cupra Marittima (nelle Marche) nel 1982. Si è diplomata nel 2004 all’Accademie delle Belle Arti di Bologna. Ha partecipato a diverse collettive e personali tra cui Quattro, Tra il 5 e l’8 presso la galleriae l’Ariete, Niente presso la galleria Terre rare, tutte di Bologna. Il suo sito http://www.amaliamora.com/
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