C’è una relazione? Sembra di no
di Silvia Fracchia
Vista nella camera a nebbia di CLOUD. (Cortesia: M. Brice/CERN)
Ebbene, tra gli svariati esperimenti in corso al CERN di Ginevra ce n’è anche uno il cui scopo è proprio quello di verificare se vi è un qualche tipo di correlazione tra l’arrivo dei raggi cosmici nell’atmosfera terrestre e i cambiamenti climatici che avvengono sul nostro pianeta. I primi risultati di CLOUD (questo è il nome dell’esperimento, acronimo di Cosmics Leaving Outdoor Droplets… e come vedremo non è un acronimo scelto a caso) sono stati resi noti da poco in un articolo pubblicato da “Nature” e firmato da una collaborazione di scienziati coordinata dal britannico Jasper Kirkby.
Prima di entrare nel vivo della questione, ossia capire se una simile correlazione esista o meno, vediamo quali sono i fondamenti di questa ipotesi. Si parte quindi dai raggi cosmici, ossia un flusso di particelle cariche la cui origine non è ancora del tutto compresa, che è presente ovunque nello spazio e che investe tutti i corpi celesti, Terra compresa. Le particelle che costituiscono i raggi cosmici, prevalentemente protoni, possono avere energie elevatissime, superiori di diversi ordini di grandezza alle energie raggiungibili con il Large Hadron Collider (LHC) del CERN, attualmente l’acceleratore di particelle più potente di cui disponiamo. Si suppone che i raggi cosmici abbiano origine durante i processi di esplosione di supernovae attraverso un meccanismo noto come accelerazione di Fermi (), secondo il quale le particelle acquisterebbero energia in seguito a ripetuti attraversamenti dell’onda di shock generatasi a causa dell’esplosione.
La penetrazione dei raggi cosmici nell’atmosfera terrestre è legata all’attività solare: infatti più il Sole è attivo, maggiore è la schermatura offerta dal suo campo magnetico alla Terra, e pure il contrario. In altre parole, quando l’attività del Sole è più intensa arrivano meno raggi cosmici sul nostro pianeta. Ciò è dovuto al fatto che il campo magnetico nell’eliosfera è molto variabile nei periodi di alta attività e questa turbolenza devia molto più efficacemente i raggi cosmici rispetto ai periodi di bassa attività, quando il campo magnetico è più costante.
I raggi cosmici, una volta entrati nell’atmosfera, vanno a collidere con i nuclei di cui essa è composta. Il risultato di queste collisioni è la formazione di nuove particelle che a loro volta possono interagire o decadere, dando origine ad altre particelle, come muoni, elettroni e neutrini. Molte di esse riescono a raggiungere la superficie terrestre, dove vengono rivelate: si parla in questo caso di raggi cosmici secondari, per distinguerli dai primari che arrivano nell’atmosfera direttamente dallo spazio.
L'interazione dei raggi cosmici con l'atmosfera terrestre. (Cortesia: M. Manske)
Il fatto interessante e riconosciuto quasi all’unanimità dagli scienziati è che i protoni cosmici, una volta giunti nell’atmosfera terrestre, sono in grado di ionizzare i composti volatili, provocandone la condensazione in goccioline o aerosol, attorno alle quali possono poi formarsi le nuvole.
Fin a qui sembra tutto Ok. Il dibattito si accende però quando si inizia a prendere in considerazione una teoria, elaborata dal fisico danese Henrik Svensmark, della Technical University of Denmark di Copenhagen, intorno alla quale è stato progettato l’esperimento CLOUD. Svensmark sostiene che un’elevata attività solare, e quindi una minore quantità di raggi cosmici che raggiunge la Terra, provoca la diminuzione della copertura di nuvole e, di conseguenza, il riscaldamento del pianeta.
Jasper Kirkby e la camera a nebbia di CLOUD. (Cortesia: M. Brice/CERN)
Ecco allora che entrano in gioco il team di Kirkby e l’esperimento CLOUD. In che cosa consiste quest’ultimo? In poche parole, si tratta di una camera a nebbia riempita di aria ultrapura e composti chimici contenuti nelle nuvole, come vapor d’acqua, diossido di zolfo, ozono e ammoniaca. La camera viene bombardata con il fascio di protoni del Proton Synchrotron dell’LHC. I primi risultati dell’esperimento indicano che l’azione di questi raggi cosmici artificiali interagenti nel gas della camera causa un notevole aumento nella formazione di particelle di dimensioni nanometriche, che tuttavia sono troppo piccole per consentire lo sviluppo di nuvole intorno a esse.
Morale della favola: per ora la teoria di Svensmark non sembra essere confermata e quest’ipotetica correlazione tra raggi cosmici e clima terrestre non appare dimostrata sperimentalmente. E se Kirkby si dichiara fiducioso nel proseguimento di questo tipo di esperimento, che avrà luogo nei prossimi cinque anni, altri scienziati, come Mike Lockwood, dell’Università di Reading, in Inghilterra, sembrano piuttosto scettici. Lockwood sostiene che il processo di formazione di nubi dovuto ai raggi cosmici è trascurabile in confronto ad altri processi atmosferici.
Insomma, forse CLOUD non è riuscito e non riuscirà nell’intento di discolparci dalla nostra responsabilità nel global warming, ma senz’altro potrà dare importanti contributi nella comprensione dei meccanismi climatici del nostro pianeta.
Kirkby, J., Curtius, J., Almeida, J., Dunne, E., Duplissy, J., Ehrhart, S., Franchin, A., Gagné, S., Ickes, L., Kürten, A., Kupc, A., Metzger, A., Riccobono, F., Rondo, L., Schobesberger, S., Tsagkogeorgas, G., Wimmer, D., Amorim, A., Bianchi, F., Breitenlechner, M., David, A., Dommen, J., Downard, A., Ehn, M., Flagan, R., Haider, S., Hansel, A., Hauser, D., Jud, W., Junninen, H., Kreissl, F., Kvashin, A., Laaksonen, A., Lehtipalo, K., Lima, J., Lovejoy, E., Makhmutov, V., Mathot, S., Mikkilä, J., Minginette, P., Mogo, S., Nieminen, T., Onnela, A., Pereira, P., Petäjä, T., Schnitzhofer, R., Seinfeld, J., Sipilä, M., Stozhkov, Y., Stratmann, F., Tomé, A., Vanhanen, J., Viisanen, Y., Vrtala, A., Wagner, P., Walther, H., Weingartner, E., Wex, H., Winkler, P., Carslaw, K., Worsnop, D., Baltensperger, U., & Kulmala, M. (2011). Role of sulphuric acid, ammonia and galactic cosmic rays in atmospheric aerosol nucleation Nature, 476 (7361), 429-433 DOI: 10.1038/nature10343