Reticolato esterno (doppio) composto da filo spinato elettrificato con 6000 Volts
Ci può capire soltanto chi ha mangiato insieme a noi dalla stessa scodella.
(dalla lettera di una ex detenuta dell’Ucraina occidentale in Aleksandr Solzenicyn – Arcipelago Gulag)
Sebbene solo al pensiero della deportazione, così tanti ebrei preferirono togliersi la vita da loro stessi (vedi post suicidi fra gli ebrei durante le deportazioni naziste), il suicidio nei campi di concentramento, subì una brusca, anomala ma non inspiegabile frenata.
A dire la verità, la documentazione arrivataci, di questo fenomeno, più che basarsi su dati, percentuali e statistiche rigorose è costruita sulle testimonianze dei sopravvissuti. Questo perché ai nazisti non importava tenere il conto dei decessi degli ebrei che sceglievano di togliersi la vita, annotandone i nomi e le date, o meglio, i numeri tatuati sull’avambraccio; in fondo stavano solo anticipando da loro stessi il progetto di sterminio totale che speravano di attuare quanto prima.
Resta il fatto che, al confronto di quanto succedeva negli ambienti carcerari, dove il tasso dei suicidi era da sempre elevatissimo, nei campi di concentramento, i suicidi risultavano rari.
Aleksandr Isaevič Solženicyn
Nei lager, gli internati, erano reclusi dal resto del mondo, con regole severe, anzi sadiche, imposte dall’alto, con la fame li attanagliava in continuazione e la stanchezza per il lavoro forzato che li stremava; non sapevano se avrebbero trascorso lì e in quel modo, il resto della loro vita o se li avrebbero uccisi prima. Inoltre, nei campi di concentramento non si entrava perché si aveva fatto qualcosa, ma perché si era qualcuno… ebreo, zingaro, omosessuale, malato di mente, nemico del popolo o semplicemente la moglie di qualcuno di questi.
I carcerati, anche gli ergastolani, sapevano la durata della loro pena, invece, nei campi di concentramento aleggiava costantemente un senso di provvisorietà, tutto poteva cambiare da un momento all’altro, e quasi sicuramente sarebbe stato in peggio.
Nei campi di concentramento si veniva (per puro odio, non ne vedo altra ragione) spogliati della propria identità, umiliati, si subivano degradazioni pensate apposta perché avessero effetti deleteri sulla personalità degli internati.
Li si voleva terrorizzare, far provare loro un senso di impotenza, inutilità, per portarli alla depressione e farli morire disperati.
Gli internati dei lager invidiavano gli ergastolani che ogni tanto vedevano passare.
“(…) per la loro vita relativamente regolata, relativamente sicura, relativamente igienica (…) “. (Victor Frankl 1995, psichiatra sopravvissuto ai lager)
Le condizioni del peggior carcere sembravano comodità di lusso agli internati nei lager. A rigor di logica quindi, i casi di suicidio nei lager avrebbero dovuto eguagliare anzi, superare quelli del carcere.
Tutti gli studi avevano dimostrato inequivocabilmente che gli internati in carcere si toglievano la vita più spesso di ogni altra categoria e così in tutti i paesi occidentali. Soprattutto i detenuti in attesa di giudizio piuttosto che i già condannati, probabilmente perché lo stato di incertezza causa ansia e stress che non tutti riescono a tollerare, e poi gli ergastolani, per i quali la vita ai loro occhi non ha più senso.
Però, gli internati nei lager vivevano in uno stato di incertezza maggiore di quello dei detenuti in attesa di giudizio e, con una prospettiva di vita futura non diversa né migliore di quella di un ergastolano; quindi come mai non si suicidavano come facevano i carcerati?
Ribadendo quanto sia difficile avere dati precisi, su un campione di umanità di cui non solo non ci si preoccupava ma si voleva addirittura sterminare quanto prima, si è valutato che a Bucherwald i suicidi non furono superiori allo 0,3 % e tutti i sopravvissuti nelle testimonianze sono concordi nel ribadire che nei lager si decise di vivere. L’unico documento con una statistica meticolosa è quello di Otto Walden, medico in una sezione di Auschwitz, da dove risulta che, fra i 1.902 internati morti dal 20 settembre 1943 al 1 novembre 1944, non vi fu nessun caso di suicidio.
Sapevano che sarebbero stati sottoposti ad altre esperienze di degradazione, che le violenze fisiche e psichiche sarebbero continuate e, sebbene vivessero con il filo spinato carico di corrente là, costantemente bene in vista, a ricordare che sarebbe bastato lanciarglisi contro per poter porre fine alla propria vita, la voglia di vivere ebbe la meglio su tutto il resto. Nei lager non si voleva cedere, soprattutto mentalmente; resistere senza cedere era l’unico atto di ribellione che ancora potevano fare, verso chi li desiderava morti. Così hanno raccontato i sopravvissuti.
“Ogni giorno era una lotta per la vita. Come era possibile, conducendo questa battaglia, lasciare la vita? C’era uno scopo – uscire dalla sofferenza – e una speranza, incontrare le persone che uno amava“. Evgency Gnedin
I suicidi comunque capitavano, ma più che altro fra coloro che gestivano i forni crematori, ossia fra i prigionieri delle squadre speciali (dei “privilegiati” premiati con un po’ di più di cibo) che avevano il compito di portare una parte dei nuovi arrivati alle docce (a gas) e poi trascinare fuori i cadaveri ed estrarre loro i denti d’oro. Oppure si suicidavano le persone già nel gruppo dei condannati a morte (che venivano lasciate in vita per mere questioni logistiche, ancora per un paio di giorni), forse l’ultimo modo per disubbidire ai nazisti.
Nei lager sovietici accadde lo stesso. Alexander Solzenicyn in Arcipelago Gulag testimonia : “(…) non ci furono suicidi. Condannati a un’esistenza mostruosa, allo sfinimento per fame, a un lavoro massacrante, non si suicidavano“. Secondo Solzenicyn il basso tasso di suicidi era dovuto all’idea onnipresente della morte. “Per molti dei sopravvissuti questo dipendeva dalla prossimità della morte, dalla familiarità che si imparava ad avere con essa. Si combatte contro di lei ma non se ne aveva più paura e chiunque ha smesso di temere la morte, la vita appartiene completamente e senza limiti”. (qui una pagina da Arcipelago Gulag)
Si deperiva, i muscoli si atrofizzavano per la malnutrizione e ci si esauriva anche psichicamente e così si moriva, mentre si era sul lavoro o di notte, quando si dormiva, per inedia, ma non per una forma di rinuncia consapevole alla vita.
La regola generale era che gli internati non si toglievano la vita o comunque molto, molto meno dei carcerati. Secondo Solzenicyn il numero dei suicidi sembrava inferiore anche in confronto a quello che accadeva fra i liberi, affermando però che non aveva la possibilità di verificare i dati.
I testimoni perlopiù mettevano a confronto ciò che vedevano con quello che si sarebbero aspettati in simili condizioni di vita e poi si facevano un’idea grazie alle confidenze personali che si facevano l’un con l’altro.
Imre Kertész, scrittore ungherese, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e Premio Nobel per la letteratura nel 2002
La rarità del suicidio secondo Hanna Arendt poteva essere dovuta al fatto che fosse ostacolato ed impedito dalle Ss, da una istituzione che aspirava il dominio assoluto su quegli uomini. A Dachau infatti, stabilirono che chi avesse tentato di uccidersi senza riuscirci venisse poi punito a frustate, considerando il suicidio come una sfida al loro potere assoluto di vita e morte sugli ebrei. Ma a lanciarsi contro il filo spinato carico di corrente difficilmente si sarebbe sopravvissuti, quindi si sono cercate anche altre ipotesi più convincenti.
Neanche la forte integrazione e aiuto reciproco fra i prigionieri convince, perché non c’era. I prigionieri raccontano che non c’era spirito di cameratismo; la fame, la sete, la fatica e le malattie, il pericolo di morte non favorivano la solidarietà né l’aiuto reciproco. Regnava la sfiducia negli altri ormai disposti a tradirti per un pezzo di pane e c’era una perenne lotta di tutti contro tutti senza remissione e con qualsiasi mezzo.
Primo Levi racconta che nel lager ognuno era “disperatamente ferocemente solo” e cita una regola, poche parole ripetute continuamente, da una sopravvissuta: “per prima, per seconda e per terza vengo io. Poi più niente. Poi io di nuovo; poi tutti gli altri“.
Altri sopravvissuti spiegano come nel lager ci si abituava a sentire la morte come normale proprio come fuori si considera normale la vita e, mentre dal regno della vita si poteva uscire uccidendosi, da quello della morte si cercava di fuggire sopravvivendo. Una persona che soffre la fame, il freddo e la fatica, sapendo che la possono uccidere da un momento all’altro diventa indifferente all’idea della morte onnipresente in quei luoghi e, l’idea di cercare un modo per togliersi la vita volontariamente sembra un nonsense.
L’istinto di autoconservazione assumeva le sembianze della sfida e gli internati finivano per chiedersi perché mai avrebbero dovuto fare a quei maiali il vavore di uccidersi.
Inoltre non c’era un ben che minimo senso di colpa negli internati, lo sapevano che la colpa e la crudeltà era solo e tutta dei nazisti. Idem nei gulag.
Scrive dal gulag Aleksandr Solzenicun “nella nostra pressoché generale consapevolezza di essere innocenti (…) e di sventura non si muore, bisogna superarla“.
Così, mentre fra i carcerati sono numerosi i tossicodipendenti, gli alcolizzati, le persone che soffrono di sindromi e depressioni, disturbi psichici, già a rischio di suicidio e quindi vanno considerati come una delle parti più fragili della società, nei lager arrivavano persone meno vulnerabili della media che avevano già deciso, coraggiosamente, di non aderire anche loro all’epidemia dei suicidi capitata prima delle deportazioni. Erano i più forti nel carattere e nello spirito, pronti a sopportare e questo rese più rari i suicidi nei campi di concentramento e nei lager.
“Di fronte ai miei compagni di Lager io rimango sempre il numero 6865. (…) Ci stivarono in carri bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, decine di migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato. Il mondo ci dimenticò.
E la voce del numero 6865 che parla. E la stessa voce di allora. Sono gli stessi baffi di allora.” (Giovannino Guareschi – Diario Clandestino – qui dei brani)
to be continued
altri post sul suicidio
1. Suicidio, il neologismo ——- 2. Suicidio, la definizione ——- 3. Il contagio: l’Effetto Werther ——- 4. Suicidi fra gli ebrei durante le deportazioni naziste
Brani tratti da, sul suicidio
Immanuel Kant, Del Suicidio
Bloody Ivy