Allora ho pensato all'espressione di Henry Miller, a ricordati di ricordare, e ho capito che tutti gli eventi e i personaggi, i vivi e i morti che quell'hotel aveva ospitato, e gli anni racchiusi tra la metà dei '50 e l'inizio degli '80, periodo in cui si interrompono i racconti sul Chelsea Hotel, sono per noi, o almeno da quando me ne ricordo io nei miei 32 anni, il semplice e inutile ricordo di un ricordo, episodi capitati in un'altra dimensione che non esiste più, che soprattutto non appartengono più a nessuno, nemmeno a chi l'ha vissuta.
Eppure in un certo senso sono cose di cui abbiamo ancora bisogno, perché, forse, ci ricollegano all'ultimo momento in cui l'arte, la diversità e l'avanguardia (almeno così ci hanno raccontato) l'hanno fatta da padrone, ritrovandosi alla testa di un corteo che forse nessuno aveva intenzione di guidare. Dopo di allora, o magari anche prima, solo che non è la percezione che ne abbiamo, l'arte maledetta è diventata modello, non trasgressione, e se si pensa a chi è venuto dopo, a chi ha imposto una retorica della ribellione, vengono solo in mente Madonna e qualche attore o stilista pipparolo votato alla sobrietà dopo le cliniche californiane per la disintossicazione.
Il Chelsea Hotel è il simbolo deceduto dell'unicità della vita artistica, mentre ora, con la vita della star offertaci in dono per la riproduzione collettiva, tutti noi speriamo di abbrancare un pezzo di mitologia, magari ritrovandola proprio nei cinque minuti di visita al luogo simbolo della cultura del rock e del punk.
La realtà è triste, il racconto che ne facciamo può essere esaltante, ma alla lunga perde di forza. E al momento non abbiamo ancora trovato una forma alternativa di mitizzazione del quotidiano.
I remember you were the Chelsea Hotel.