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I report del Pentagono, la trasparenza democratica, e Hillary

Creato il 18 settembre 2015 da Danemblog @danemblog
(Pubblicato su Formiche)
Una cinquantina di analisti dell’intelligence americana hanno denunciato i superiori del Comando Centrale (CentCom) perché manipolavano i loro report: sarebbero stati modificati per rendere l’idea che la guerra contro lo Stato islamico stava riportando risultati positivi, quasi vittoriosi. I report finivano in mano alla Casa Bianca e al Pentagono: la questione dunque altera la catena di controllo del comando, secondo cui le analisi devono essere laiche (depoliticizzate e oggettive) per fornire alla politica una possibilità di scelta indipendente.
La notizia era già stata diffusa dal New York Times in un pezzo di tre settimane fa, e poi successivamente rilanciata dal sito Daily Beast una decina di giorni dopo attraverso le testimonianze di nuove e più corpose fonti: adesso diventa più importante perché quegli analisti avevano consegnato le proprie denunce ad alcuni ispettori del Pentagono che hanno avviato l’indagine e cominciano ad uscire voci che sia tutto vero.
I report falsati riguardano due argomenti. Il primo: l’esercito iracheno, la forza effettiva più grande di cui dispone come alleato la Coalizione internazionale che sta combattendo l’IS in Siria e inIraq, è dipinto con un livello di preparazione, operatività, prontezza, molto superiore a quello reale ─ vedere per credere: sono sei mesi che sta cercando di accerchiare Ramadi, la capitale dell’Anbar caduta in modo del tutto atteso in mano al Califfo e che secondo il premier Haider al Abadi il suo esercito avrebbe ripreso in due giorni. Secondo: gli airstrike sono descritti come molto più efficaci di quando in realtà siano mani stati ─ tutti sanno che la campagna aera ha avuto un effettivo valore soltanto nei casi in cui è stata affiancata a coordinate e robuste operazioni di terra (vedi Kobane o per andare più indietro nel tempo l’attacco alla diga di Haditha o il Sinjar).
Dalle testimonianze degli analisti, esce anche che l’ambiente in cui si trovano costretti a lavorare era insostenibilmente vessatorio: in pratica molti di loro falsavano già i report prima di consegnarli ai superiori perché quello era il clima (avvelenato) dominante. Altri sono stati costretti a licenziarsi.
Il New York Times lascia intendere tra le righe che l’alterazione delle analisi aveva uno scopo preciso: testimoniare l’efficienza dell’intervento già in atto, tiene lontane le ipotesi sull’invio di un contingente di terra, i famosi boots on the ground. Argomento di cui si è tornato a discutere parecchio, anche alla luce delle posizioni prese da alcuni governi, come quello Cameron nel Regno Unito, e pure perché alcune opinioni pubbliche tra i Paesi della Coalizione cominciano a capire che c’è necessità di spingere di più sull’acceleratore se si vuole davvero sconfiggere il Califfo: esempio, i francesi.
In questi giorni il capo di CentCom, il generale Lloyd Austin, è stato costretto ad ammettere durante un’audizione al Senato che alcune unità delle forze speciali americane si trovano in Siria al fianco dei curdi dell’YPG ─ quelli curdi al momento sono i soldati più credibili (sia in Siria che i peshmerga in Iraq) con cui allearsi sul terreno. Non è che i vertici americani fanno una gran figura ammettendo questo, perché l’Unità di protezione popolare siriana è alleata di sangue del Pkk turco, che è considerato dagli Stati Uniti un’entità terroristica ─ la Turchia da quando ha iniziato le operazioni antiterrorismo ha messo nell’obiettivo molto più il Pkk che l’IS, ed alcune volte ha centrato anche postazioni dell’YPG e uomini del Pkk che stavano combattendo al fianco dei fratelli siriani (e dunque degli americani?). Inoltre Austin ha fatto capire che l’YPG era quasi una necessità (o un’exit strategy), visto che i ribelli moderati addestrati per combattere in Siria lo Stato islamico (quelli che dovevano essere gli stivali occidentali sul terreno) sono rimasti quattro o forse cinque: erano partiti in cinquantaquattro, un numero già ridicolmente basso, ma poi sono stati subito annientati da al Nusra appena messo piede in Siria.
Queste notizie sulla deviazione di una parte fondamentale della catena decisionale in fase di guerra come di pace, sono un colpo duro per i democratici. Dal punto di visto politico infatti, l’argomento è particolarmente spinoso, perché Barack Obama ha creato molto consenso fin dalla sua prima candidatura attorno alla necessità del ritiro dai fronti aperti dalle amministrazioni precedenti, in particolare Iraq e Afghanistan. Se fosse costretto a rimettere soldati di terra in Iraq, per combattere lo Stato islamico nato nel post-ritiro americano, ovviamente si tratterebbe di una pesante sconfitta per uno dei più ferrei convincimenti obamiani e democratici.
La questione della poca trasparenza nella rete dell’Amministrazione dem, inoltre, si appaia alla figura di Hillary Clinton. La frontrunner tra i candidati democratici ha ancora aperta la vicenda della sue email. L’accusa, ormai nota, è di non avere utilizzato un account governativo certificato per gestire la sua corrispondenza nel periodo in cui era segretario di Stato: la legge ai tempi le garantiva di poter utilizzare una casella personale (ora è cambiata e non si può più), ma forse con quella ha maneggiato anche roba classificata “riservata” esponendo segreti di stato alla possibilità di cyber attacchi esterni ─ visto che la casella personale dovrebbe essere stata meno protetta di quella .gov. Inoltre, qui l’accusa più pesante di poca trasparenza, quando il governo le ha chiesto le mail per archiviarle, le ha consegnate “vagliate”, cioè un parte consistente è stata completamente cancellata dal suo server, perché secondo il suo staff riguardavano affari personali. “Sarà vero?” si chiedono in America ─ il Dipartimento di Giustizia ha difeso davanti a un tribunale il comportamento di Hillary Clinton, dicendo che non solo aveva il pieno diritto di utilizzare un account privato, ma era anche nella piena facoltà di cancellare a propria discrezione le mail personali prima di consegnare il faldone agli archivi governativi (addirittura, avrebbe potuto farlo prima che fossero archiviate, anche nel caso stesse utilizzando un indirizzo di posta elettronica governativo).
In questi ultimi giorni Clinton, anche forte della posizione del DOJ, per la prima volta dopo mesi dall’uscita della storia si è scusata con il proprio elettorato, ammettendo in una mail inviata ai suoi sostenitori e poi resa pubblica, di aver sbagliato, dicendosi dispiaciuta sia dell’accaduto e sia di non aver scritto prima una lettera di scuse alla sua constituency.
Se le scuse di Clinton, possono essere un utile passo dal punto di vista politico per riaccaparrarsi la fiducia dei democratici (il lato peggiore del profilo di Hillary riguarda proprio la trasparenza, secondo tutti i sondaggi), la questione giudiziaria resta in piedi e complica la campagna dem. L’Fbi ha da un po’ aperto un’indagine per verificare se documenti riservati non siano finiti nelle mani sbagliate ─ la possibilità della fuga di segreti è considerata una colpa legale. La questione entra ed esce dai margini al centro del dibattito, semplicemente perché per il momento tutta la politica ruota attorno allo scannamento repubblicano ─ quasi una ventina di candidati che si danno botte pur di vincere le primarie in programma l’8 novembre. Mentre Hillary è praticamente in fuga da sempre: il suo nome è destinato per il momento a stravincere nella scelta dei democratici per la presidenza e non ha avversari che possano lontanamente incalzarla.
Ora però la vicenda delle email potrebbe accoppiarsi con quella dei report modificati e rendere la campagna di Clinton più complicata, pigiando sul nervo scoperto della trasparenza, sua e dell’attuale amministrazione democratica. Sarà un argomento di dibattito per i repubblicani che vogliono riprendersi la Casa Bianca.


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